“Solidarietà spontanea”: un principio apparentemente facile, persino ovvio. Ma nel buco, tutto ciò che appare ovvio, in realtà non lo è.
Lo scopre ben presto Goreng (Ivan Massagué), che chiede di andare nel buco per sei mesi in cambio di un titolo accademico. Alla domanda su quale unico oggetto voglia portare con sé, lui sceglie un libro, il Don Chisciotte.
“Il buco” (tradotto letteralmente sarebbe “la fossa”) è un immenso, profondissimo girone infernale, dalle tinte livide come una prigione della Stasi e dall’atmosfera di terrore come in un incubo kafkiano. Il Sistema assegna a caso il posto: ci si può trovare nei livelli più alti oppure in quelli più bassi, senza alcuna ragione. Ma essere in alto o in basso significa vivere o morire. Infatti il cibo – ottimo e abbondante – viene posato ogni giorno su una piattaforma che parte dall’alto e scende a rapidi intervalli fino ai livelli più bassi. Ma i primi che si servono divorano anche quello che dovrebbero lasciare agli altri e così non ce n’è mai abbastanza per tutti.
È evidente che il buco è una metafora della società mondiale, dove i primi, ossia i Paesi ricchi, consumano le risorse senza mettere in atto verso gli ultimi alcun sistema di “solidarietà spontanea” che non solo permetterebbe a tutti di sopravvivere, ma anche di vivere meglio e di ridurre conflitti, odi, guerre.
Goreng è lui stesso una sorta di Don Chisciotte, che pur con le umane debolezze e colpe, è l’unico che abbia scelto un libro, mentre in gran parte gli altri hanno scelto un’arma, ed è anche l’unico che abbia l’iniziativa di rendere meno ingiusta la distribuzione del cibo. Sembra ovvio (la parola “ovvio“ sarà un beffardo leitmotiv del film) voler persuadere alla solidarietà, a indurre a migliorare le condizioni di vita di quel posto e ad ammansire la bestialità delle persone che lo occupano; invece no, la persuasione pacifica non attacca, è inevitabile un atto di forza, che per contro scatena un orrore ancora maggiore di prima. Il tono di tragedia cala un po’ nel finale, con ancora un labile, incerto filo di speranza nel futuro.
Il quarantaquattrenne regista basco Galder Gaztelu-Urrutia Munitxa, che è anche esperto di commercio internazionale, con questo film di tagliente distopia ha voluto mostrare verso quale tragica apocalissi siamo coscientemente avviati, consumando con incontrollato egoismo le risorse del pianeta e uccidendo con distratta superficialità altri esseri umani.
Impressionante la prestazione del cast: Antonia San Juan (Imoguiri), Zorion Eguileor (Trimagasi), Emilio Buale (Baharat), Alexandra Masangkay (Miharu), oltre al già citato protagonista Ivan Massagué, che anche nell’aspetto e nelle movenze ricorda il personaggio di Cervantes.
Il film, accolto da grande successo al Festival del Cinema di Toronto 2019 e lanciato grazie a Netflix, è in concorso al 37° Torino Film Festival, dove ha meritato il
PREMIO SCUOLA HOLDEN per la miglior sceneggiatura.