Donya, con un passato da interprete per i militari americani a Kabul, è fuggita dall’Afghanistan dopo il ritorno al potere dei taliban e, senza aver davvero potuto scegliere la sua destinazione, si è trasferita nella multietnica cittadina californiana di Fremont, dove ha trovato lavoro in una piccola azienda che produce biscotti della fortuna per i ristoranti cinesi. Tra notti insonni, sedute dallo psicologo e quotidianità provinciale, Donya cerca di trovare il suo spazio e un contatto autentico con il mondo esterno…

Ha il tono e l’incedere del tipico film indipendente americano, la commedia agrodolce in bianco e nero del regista di origine iraniana Babak Jalali, premiato, per questo suo quarto lungometraggio che segue lavori presentati a Locarno, Rotterdam e Berlino, con il Best Director Award al Festival di Karlovy Vary. Nella cittadina del titolo, Fremont, indistinguibile per la sua conformazione dalla miriade di piccoli centri urbani americani onnipresenti tra film e serie, si incrociano svariate nazionalità, dai connazionali della protagonista afghana ai cinesi della fabbrica di biscotti della fortuna ormai integrati da molti anni in loco. E il nucleo principale del racconto è proprio una riflessione sulla condizione di chi è emigrato, spesso da solo, per cause di forza maggiore e senza poter scegliere dove stabilirsi, come appunto Donya, una giovane donna tra i venti e i trent’anni che deve prendere le redini della sua vita adulta lontano da una casa dove, probabilmente, non potrà più tornare.

Tutto sembra procedere per il meglio, al di là della sonnacchiosa routine di Fremont: Donya ha un lavoro (e, soprattutto, dei datori di lavoro rispettosi nei suoi confronti), un alloggio in uno stabile insieme ad altri afghani con cui intrattiene rapporti cordiali, l’abitudine di cenare in un piccolo locale dove proiettano telenovele. Insomma, siamo molto distanti dalle storie crude, fatte di razzismo, sfruttamento e violenza, su cui sono spesso incentrati i film dedicati ai migranti. Nondimeno, dietro questa facciata di quiete provinciale non sfugge un bizzarro, continuo effetto di profondo straniamento. Il volto malinconico di Donya cela traumi che non tardano ad affiorare con sintomi psicosomatici inizialmente liquidati come semplice insonnia, perché Donya, chiaramente, immergendosi nella banale routine cerca di rimuovere il proprio passato, e in primis il senso di colpa nei confronti di chi non ce l’ha fatta a scappare e ricominciare altrove: un chiodo fisso che, seppur in sordina, sembra negare a priori il diritto a una felicità individuale anche modesta. Simili blocchi impediscono a Donya di trovare un vero contatto umano al di là dell’Oceano, dove nelle sue sensazioni è comunque un’estranea: come le fa notare il suo psicologo, è simile a Zanna Bianca, mezzo cane e mezzo lupo, non del tutto ‘autoctono’ né in città, né nella foresta – d’altronde, Donya occupava una posizione ibrida che la faceva sentire a disagio anche nel suo paese natale, in quanto afghana ma collaboratrice degli ‘occupanti’ americani, donna ma interprete dall’inglese in mezzo a colleghi unicamente maschi.

L’inaspettata svolta arriverà quando le verrà assegnato il compito di scrivere i messaggi da racchiudere nei biscotti della fortuna cinesi, stereotipate previsioni per il futuro che nessuno, al termine di un pranzo o di una cena al ristorante, prende sul serio, ma comunque simbolo della varietà di eventi che potrebbero verificarsi con la complicità del caso. Inventandosi, seppur tenendo a freno la fantasia come le dice di fare il suo capo, dei pronostici per le vite altrui, Donya inizia a considerare la moltitudine delle opportunità che potrebbero aprirsi anche a lei, fino ad affidarsi proprio al caso e a un biscotto per fare finalmente breccia nel muro di silenziosa solitudine che si è costruita attorno.

Il risultato è un film delicato, venato di un empatico umorismo un po’ alla Jarmusch, un po’ alla Kaurismäki: nonostante le amarezze e le delusioni vissute da Donya (un altro bel personaggio femminile incarnato dall’attrice – finora – non professionista Anaita Wali Zada, a un’edizione del Festival di Karlovy Vary caratterizzata dalla presenza di tutta una serie di protagoniste donne di rilievo), il buffo e tenero finale lascia spazio a un calore umano che arriva in modo fortuito, similmente al messaggio di un biscotto della fortuna. D’altronde, come sentiamo nella dolce canzone anni ’70 della songwriter Vashti Bunyan cantata dalla collega ispanica di Donya – e non a caso nella colonna sonora, volta a rendere l’atmosfera californiana a tratti retro di “Fremont”, si punta molto sul sound di quel periodo, intriso appunto di speranze nonostante tutto – “Just another life to live / Just a word to say / Just another love to give / And a diamond day”.