Acclamato enfant prodige del cinema, Xavier Dolan presenta Mommy, il suo quinto film, alla 67ª edizione del Festival di Cannes, dove vince il Gran Premio della Giuria, confermandosi uno degli autori più promettenti e importanti del cinema moderno.
Il Canada moderno ha deciso di varare la legge S-14, che consente ai genitori di minorenni problematici di sottoporli a un TSO facendoli ricoverare in un istituto psichiatrico evitando le procedure legali. In questo contesto Diane è costretta a riprendere a casa suo figlio Steve, cacciato dal centro di recupero dove viveva anzitempo per l’ennesimo episodio di violenza, nonostante non possa occuparsi di lui perché deve lavorare. A portare temporanea stabilità nella famiglia sarà Kyla, insegnante che ha preso un anno sabbatico per curare la sua balbuzie.
Il rapporto tra Diane e Steve è strano. Lei è una quasi cinquantenne fiera, dal look aggressivo e dalla parlantina sboccata, il figlio è simile alla madre ma soffre di ADHD, che lo porta a non avere la benché minima forma di autocontrollo, specie se c’è di mezzo la madre. Il loro rapporto è corporale, quasi erotico, e insieme formano un duo legato da un amore violento, di carezze, schiaffi, abbracci, insulti. Quasi come se il rapporto fra i due non potesse essere sereno oltre un certo periodo di tempo.
L’arrivo di Kyla porterà più equilibrio, visto che lei segue Steve mentre Diane lavora per mantenere lei e il figlio. Kyla, muta per buona parte del film perché imbarazzata dal proprio deficit, si fa espediente narrativo per consentire allo spettatore di sperare e svolge un ruolo analogo a quello del regista: non interviene platealmente, ma suo è il primo e l’ultimo sguardo, ed è lei che, seppur silenziosa, permette a questa famiglia di vivere per tutto il tempo possibile. Ma se il film racconta di un trio, nell’inquadratura non c’è mai spazio per più di una persona intera, perché il formato scelto da Dolan è una ratio 1:1, a detta sua per “amplificare le emozioni dei personaggi”.
Infatti costringere la narrazione in questa sorta di gabbia soffoca costantemente gli attori esaltandone le prestazioni per contrasto, perché l’attenzione dello spettatore si concentra su un elemento soltanto e su un corpo mai intero. L’essere sopra le righe di Diane e Steve, una cifra tipica dei protagonisti dolaniani (che rivela la loro incapacità di sfuggire alla situazione in cui si trovano), riempie lo schermo in senso letterale eliminando il realismo e la temporalità del contesto, esprimendo il disagio della coppia di protagonisti in modo dirompente, e unendo a questo un senso di oppressione generale attraverso la quadratura delle riprese (oltre a rivitalizzare l’impatto del primo piano).
Proprio per questo quindi Diane e Steve sono due personaggi condannati tanto all’infelicità quanto all’eterno tentativo di sfuggire a essa, poiché la speranza è inversamente proporzionale alle ragioni per sperare (come dice Diane a Kyla alla fine del film: “Siamo in un mondo senza speranza, ma pieno di persone che sperano”). Inoltre la ratio 1:1 è in linea con il rapporto tra madre e figlio, possessivo, stretto. In questo senso Mommy ricorda l’opera prima del canadese, J’ai tué ma mère. Anche quella raccontava di un difficile rapporto madre/figlio (con padre assente) che però si configurava come percorso di maturazione da parte del figlio attraverso l’accettazione della propria omosessualità.
Per scelta del regista in J’ai tué ma mère la riconciliazione finale era ovvia fin dall’inizio, al fine di sminuire la portata del dramma dall’esterno che invece turba così tanto due vite, mentre Mommy sembra esserne la versione aggiornata, non migliorata, ma maturata grazie agli anni trascorsi. In Mommy non esiste lieto fine, il rapporto tra madre e figlio non può reggere: come fin dall’inizio ci rivela quel rapporto visivo “uno a uno”, c’è posto per uno solo di loro due, ecco quindi che la S-14 torna a svolgere prepotentemente il suo ruolo. Ma anche se il nostro ama i suoi personaggi, li accarezza con movimenti di macchina morbidi e li circonda di colori caldi, li fa sognare con quel catartico 1.85:1 cui ogni tanto lo schermo si apre, c’è un limite, oltre il quale né lui né la sua controparte Kyla possono fare più nulla.
In conclusione, Mommy è l’opera più magniloquente e accessibile (l’unica a essere stata distribuita in Italia) di un regista che meriterebbe più spazio. Mommy rappresenta una visione interessante anche per l’uso originale del ritmo. Ai film di consumo del giorno d’oggi viene spesso (e a ragione) criticata la velocità del montaggio e il continuo eccesso di climax. Il regista canadese monta velocemente, usa la mdp in modo parabolico e fantasioso e ha climax regolari, ma tutto ciò riesce ad assimilarsi alla dimensione quotidiana creando un film che commuove picchiando lo spettatore ripetutamente e con cadenza costante. Insomma, sebbene in Dolan sia forte la lezione di alcuni cineasti del passato (si veda soprattutto Fassbinder) Mommy è come una sorta di esempio di come si può fare buon cinema con l’uso esclusivo degli stilemi più recenti che al pubblico piacciono tanto.
Titolo originale: Mommy
Nazione: Canada
Anno: 2014
Genere: Drammatico
Durata: 139′
Regia: Xavier DolanCast: Anne Dorval, Antonie-Olivier Pilon, Suzanne Clément
Data di uscita: Cannes 2014