Il lungometraggio d’esordio di Christina Choe non è anche la sua prima incursione sotto i riflettori, essendo salita alla ribalta – pur per un lasso di tempo relativamente breve – con la docu-serie Welcome to DPRK, incentrata sulla vita della gente comune in Corea del Nord. Nancy invece è il battesimo del fuoco dopo qualche corto e un paio di collaborazioni televisive, ma già dimostra di aver dietro una regista con le idee chiare; la prima al Sundance 2018 e il premio per la miglior sceneggiatura non hanno potuto far altro che pompare il film in termini di notorietà.
Notorietà che si merita, Nancy è un delicato affresco di solitudine e spaesamento. L’eponima protagonista – interpretata dall’ottima Andrea Riseborough, che ormai si sta “specializzando” in questo tipo di ruolo – è una trentacinquenne asociale e confusa, si mantiene lavorando in uno studio dentistico e ora deve far fronte alla morte della madre. Nella sua vita ai margini, sembra aver coltivato una passione e un talento per la scrittura che però potrebbe esserlesi rivolto contro: Nancy è una bugiarda patologica, dipendente dai mondi alternativi in cui si rifugia per sfuggire alla sua noiosa quotidianità. Mentre perde la bussola e realtà e finzione iniziano a collidere nella sua testa, questo disturbo narcisistico la porta persino ad aprire un blog di auto-aiuto per genitori che hanno visto morire in tenera età i propri figli e, da ultimo, a convincersi di essere la figlia rapita da bambina e mai ritrovata di una coppia anziana vedendo la riproposizione di un vecchio appello televisivo dei coniugi.
Il film si sviluppa nella sua breve durata (appena 80 minuti) lungo quest’asse qui, senza capovolgimenti di fronte, colpi di scena e via dicendo. È una sorta di thriller classico nella costruzione montato però come un dramma familiare, battendo soprattutto sul bisogno di accettazione. La protagonista, nel proiettare le sue fantasie su qualunque cosa la circondi per assorbirla nel mondo a lei, interno trova nei coniugi Lynch (il dubbioso Steve Buscemi e la più dolce e comprensiva J. S. Cameron) la perfetta via di fuga: spiega il difficile rapporto con la madre malata e l’alienazione sociale da un lato, mentre sul versante opposto offre su un piatto d’argento tutto ciò che una persona nelle sue condizioni desidererebbe, e cioè nuovi rapporti da costruire da capo, una buona posizione socio-culturale e magari, perché no, i giusti agganci per pubblicare il libro.
Intenso narrativamente e verboso, Nancy riesce comunque ad evitare pesantezze e scivolate eccessivamente seriose, con senso della misura sa oscillare tra una drammaturgia lineare e qualche episodio grottesco che pur non lasciando trasparire nulla di definitivo aiuta molto a inquadrare il suo personaggio cardine: Nancy non è capace a rinunciare all’incontro con uno dei più attivi seguaci del suo blog-farsa e quindi protegge la sua identità fingendo una gravidanza, buttando benzina sul fuoco. Non lo fa tanto per ingannare gli altri, non è malizia la sua – anche se certo non mostra rimorso – ma per assecondare gli impulsi inviati dalle fantasie nel suo cervello. Choe non sceglie la via onirica per raccontare il disagio, non gioca nemmeno con la psicologia, ma con delicatezza opta per filtrare il tutto mettendo in scena la semplice convivenza dei tre nell’attesa per i risultati del test del DNA che dovrebbe chiarire tutto.
Choe sceglie dunque il lavoro di sottrazione, e sviluppa la seconda metà della sua opera prima come fosse un percorso di riallocazione nel mondo reale di Nancy, che al di là del del test e del gioco figlia-sì/figlia-no vive un personalissimo (nonché piuttosto celere) percorso di formazione che la riconcilia con il suo modo di vivere e le apre gli occhi sul futuro. Continuare così, incapace di fermarsi e di affondare menzogna dopo menzogna o smetterla e riprendere in mano la propria vita è il bivio che le si pone alla fine del film, e il corpo centrale dello stesso è il ritrarne lo svolgimento, l’accettazione e la presa di coscienza. In una parola: la formazione di un’identità.
D’altro canto emerge a tratti più che altro la volontà di non sbagliare, di non eccedere e il film è accompagnato alla sua conclusione senza lazzi inutili ma anche con il freno a mano tirato. Con la positiva eccezione dell’apertura progressiva dell’AR – chicca simbolica che, come il ruolo metaforico del gatto però, in ogni caso suona un po’ estrinseca – la gestione di Nancy è abbastanza conservativa, talmente equilibrata da sembrare rigida ed esitante in alcuni punti, culminando nell’idea di una sorta di massimo risultato con il minimo sforzo, tuttavia decisamente apprezzabile. Nancy è un buon tassello nel cinema indipendente americano degli ultimi anni, però non è abbastanza potente da aprirsi la strada da solo, ed è assolutamente lecito aspettarsi qualcosa di più da Christina Choe nei prossimi anni, specie che ora l’indie made in USA vede tornare in campo il suo pezzo da novanta – finalmente.