Presentato nella sezione Orizzonti, Napadid Shodan – titolo internazionale Disappearance – è l’ultimo film del cineasta iraniano Ali Asgari, resoconto allusivo e realistico dello scontro tra gioventù e burocrazia condensato in una sola notte.

Una coppia – lei è l’esordiente Sadiaf Asgari, lui Pedram Ansari – vaga per le buie strade di Teheran a bordo della propria auto alla ricerca di una struttura disposta a effettuare un particolare intervento: i due hanno infatti avuto il loro primo rapporto sessuale e le perdite di sangue della ragazza non accennano ad arrestarsi. Dopo innumerevoli rifiuti, i due saranno costretti a voltare le spalle alla legalità optando per una soluzione meno ortodossa.

La struttura del film è fondata su una continua e alla lunga snervante ripetizione. Lo schema prevede le seguenti tappe: ingresso nell’ospedale; prima accettazione in sala d’attesa grazie a una menzogna – sono sposati, i documenti con relativo status civile sono stati smarriti, ecc.; cacciata dal complesso; richiesta d’aiuto – a vuoto o fruttuosa che sia. Ciò che Asgari vuole produrre nello spettatore è un senso di nausea parallelo a quello dei protagonisti, che si vedono sempre sbattere la porta in faccia mentre il tempo continua a scorrere. Quello che in un Paese moderno e civilizzato – quale sulla carta dovrebbe essere anche l’Iran – è all’ordine del giorno, nella terra del regista diventa quasi impossibile a causa dei moralismi che informano persino l’amministrazione e la sanità pubbliche, dando vita a una moderna odissea.

Per quanto lodevole nell’intento, Napadid Shodan è un film che non va da nessuna parte nonostante Asgari cerchi di imprimere in extremis una svolta per mezzo del personaggio della studentessa di medicina, che indicherà agli amici un dottore disposto a effettuare l’operazione dietro lauto compenso in nero. In tutto questo però lo scorcio – che pretenderebbe di essere critico – della società iraniana che si riesce ad apprezzare è del tutto privo di mordente, impersonale, quasi l’autore non avesse voluto effettivamente andare a scomodare le istituzioni con la sua pellicola, ma solo punzecchiarle con una storia di quotidiana disperazione.

napadid shodan

Sfruttando un numero ridotto all’osso di ambienti – tra cui la macchina, dal cui interno provengono le riprese più interessanti dal punto di vista tecnico – e interpreti, la pellicola si avvolge in tutti i sensi su se stessa per novanta minuti, dando costantemente l’impressione che l’inizio sia ancora da venire.