A distanza di cinque anni da Side Job (2019), Hiroki Ryūichi torna a far parlare di sé al FEFF con Noise, un poliziesco a tinte fosche costruito sul rovesciamento dell’idillio bucolico e dell’idea di comunità che a esso si accompagna, quasi a voler definitivamente demolire la retorica ridondante dei media nazionali che, in questi due anni di pandemia, hanno cercato di distogliere l’attenzione dall’emergenza sanitaria concentrandosi sulla promozione delle zone periferiche.
Nella piccola isola di Shishikari, l’intraprendente agricoltore Keita – Fujiwara Tatsuya – è riuscito a rilanciare il turismo locale grazie all’introduzione di una particolare varietà di fichi. Tra i visitatori provenienti dalla terraferma fa però il suo arrivo anche un tale Omisaka – Watanabe Daichi –, un malato mentale con un passato di pedofilia che, dopo aver strangolato il suo tutore, si aggira con fare sospetto per le case del paese. Temendo che possa aver fatto del male alla figlia, Keita cerca di fermare l’ex carcerato, uccidendolo per errore nella colluttazione. Starà al trio composto da Keita e dai suoi amici d’infanzia Shin – Kamiki Ryūnosuke – e Jun – Matsuyama Kenichi –, testimoni a loro volta dell’avvenimento, collaborare affinché il fattaccio non abbia seguito. Tuttavia, la polizia prefetturale ha già messo in moto il detective Hatakeyama – Nagase Masatoshi –, il quale non si lascerà ingannare dalle apparenze.
Esponente di punta del pinku eiga degli anni Ottanta ma uso da ormai più di un ventennio a cimentarsi in ogni genere di produzione, passando con disinvoltura dal cinema d’autore a quello di largo consumo, Hiroki non è nuovo agli adattamenti di manga per il grande schermo, avendo all’attivo alcuni fra i titoli più amati dal pubblico femminile adolescente, come Policeman and Me (2017) and Marmalade Boy (2018). Tuttavia, questa volta siamo di fronte a un soggetto originale ben più complesso e che si rivolge a tutt’altra fascia d’età, la cui storia e disegni portano la firma del maestro del thriller psicologico Tsutsui Tetsuya, arrivato a conquistare i lettori italiani già nei primi anni 2000 con opere del calibro di Reset (2005), Prophecy (2011) e Poison City (2014). Rispetto a questi ultimi, Noise rappresenta a sua volta un’eccezione, dal momento che esso non si misura con le sovrastrutture della società digitale, né con l’universo del deep web o dei fenomeni di fanatismo figli dell’era post-Aum Shinrikyō. Al contrario, gli abitanti di Shishikari sono tagliati fuori dall’ondata di progresso e benessere che coinvolge le grandi città del mainland, e aspirano ad attirarne i capitali senza con ciò compromettere l’entropia del loro microcosmo.
Inutile dirlo, si tratta del soggetto perfetto per un regista che, nonostante la dichiarata apertura verso l’industria dell’intrattenimento in tutte le sue sfumature, non ha mai perso occasione di ammonire i propri connazionali circa la mentalità xenofoba, remissiva e ostinatamente gerarchica che caratterizza la società nipponica. Per farlo, Hiroki ripropone la tipica location da drama televisivo – siamo nella prefettura di Aichi, nel Giappone Occidentale (Kansai) –, spogliandola degli attributi stereotipici che solitamente la caratterizzano, quali campi larghi e panoramiche su magnifici paesaggi da cartolina, il simpatico dialetto (Kansai-ben) degli isolani e i piccoli imprevisti a fungere da spunti comici. Al contrario, Keita (imprenditore), Shin (poliziotto) e Jun (guardia forestale) non sono dei sempliciotti qualunque, ma rappresentano ciascuno un determinato segmento della struttura di potere dell’isola, ed è proprio in virtù della reciproca collusione e interdipendenza che essi decidono di tenere segreto l’omicidio, giustificando il proprio atto alla luce dell’origine esterna dello stesso – «Se non fosse venuto a disturbarci, tutto questo non sarebbe successo», chiosa Keita prima di spostare il cadavere dalla sua serra.
Certo, il grande schermo non è nuovo a storie dove la comunità rurale, di norma accogliente e onesta, si stringe a tenaglia attorno all’elemento estraneo per soffocarlo, da Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah al più recente Hot Fuzz (2007) di Edgar Wright, ma dopo la dipartita di Ōshima Nagisa e altri osservatori della vecchia guardia, il cinema giapponese è stato a lungo digiuno di un occhio critico che prendesse di mira il mito del Giappone rurale, mettendone alla berlina le storture.
In particolare, Noise evidenzia come la tendenza al particolarismo e al campanilismo sia stata ulteriormente esasperata dalla pandemia, di cui si può leggere in filigrana la presenza. Di fatto, i personaggi vengono spesso ripresi chiusi nelle stanze che ne determinano il ruolo – il medico nell’ambulatorio, la moglie in cucina, il poliziotto alla centrale –, con poco spazio per ampie visuali sulla natura incontaminata dell’isola – che pure viene decantata a più riprese –, tanto che l’unica volta che si ha modo di vedere la struttura del villaggio di Shishikari nel suo insieme è soltanto alla fine, quando il detective Hatakeyama ha smascherato il colpevole – posto che sia davvero l’unico. Il “morbo” venuto dall’esterno, nella persona del maniaco Omisaka, si tramuta così in innesco per una strana forma di solidarietà tutta proiettata verso l’interno, la cui conseguenza logica è l’odio per chi proviene da fuori, quando in realtà sono questi ultimi gli unici in grado di mettere fine all’ondata di violenza che, proprio per fattori endogeni, sembra non aver fine.
Mettendo i propri connazionali dinanzi alla rappresentazione più bieca dei loro stessi difetti, tra cui non da ultimo il pregiudizio verso i carcerati – e più in generale il concetto di “crimine” ed “espiazione”, al centro dell’ultima opera del maestro Imamura Shōhei, L’anguilla (1997) –, Hiroki lancia un avvertimento, ricordando, per bocca del detective, che questo atteggiamento solipsistico è tipico di una comunità antiquata e morente, quale purtroppo si avvia a essere il Giappone in termini di sistema-paese, ancora restio ad aprire le proprie porte ai lavoratori e studenti stranieri nonostante la crisi di natalità e l’alta età media della popolazione, forse proprio sulla scia del timore che la cultura giapponese possa essere in qualche modo da questi contaminata – e non per forza da un virus.
È pur vero che Noise punta il dito adottando molte delle convenzioni invalse nella produzione televisiva, in particolare per quanto concerne la performance attoriale e la stesura dei dialoghi, caratterizzati da un patetismo e solennità che poco si confanno all’intento polemico dell’autore, come anche allo spirito del manga di Tsutsui. Tuttavia, è logico supporre che questo sia il prezzo da pagare per chi, come Hiroki Ryūichi, vuole continuare a lavorare con le major senza con ciò rinunciare a concedersi un film dichiaratamente personale almeno una volta l’anno.