San Sebastián 2018 si apre con l’ultimo film di Wenders, Submergence, con il tedesco che questa volta firma solo la regia a partire dall’adattamento di Eric Dignam dell’omonimo romanzo di J. M. Ledgard, giornalista dell’Economist che sulla scia di tanti colleghi ha compiuto il salto da correspondent a novelist.
A testimonianza dell’importanza che ricopre la Spagna nel mondo di Wenders, basta ricordare quanto spesso quest’ultimo sia stato membro di una giuria dei vari festival sparsi per la penisola, come abbia collaborato con l’amico Querejeta per La lettera scarlatta, e quante volte Madrid abbia servito da location per le sue opere. Submergence rientra proprio in quest’ultima categoria, girato nella vicinissima Chinchón, eccezion fatta per alcune scene provenienti da set francesi. Non dello stesso avviso probabilmente sono gli spagnoli da cui in larga parte era composta la platea degli accreditati (almeno questa volta), vista la freddezza con la quale è stata accolta la pellicola, e chi scrive non si vede particolarmente in disaccordo con la reazione del festival basco.
Basca è anche la colonna sonora, composta interamente dalla Euskadiko Orkestra Sinfonikoa, che si conferma uno dei punti di maggiore forza di un film che per lunghi tratti sembra mancare di spinta, specie nelle parti più narrative, quando una direzione non perfetta degli attori (un’anomalia nella carriera di Wenders) e una pretenziosa debolezza di fondo limitano l’invettiva tecnica e registica. Nel coacervo della produzione spicca come al solito il pressing americano, vincolando fortemente un regista che, analogamente al connazionale Herzog, su commissione ha dimostrato di fare fin troppa fatica. Fedele al materiale originario, Wenders apre il suo film a forbice: si parte dall’incontro di due personaggi all’apparenza poco inclini al romanticismo che però si innamorano perdutamente fino alla separazione obbligata; da quel momento in poi la narrazione si sviluppa due binari paralleli, con James (McAvoy) che parte per una missione governativa in Somalia sotto la falsa identità di un ingegnere idrico, mentre Danielle (Vikander) scende nelle profondità abissali per un’importante ricerca bio-matematica.
Il risultato complessivo è quello di un’opera contrita, che fatica a carburare per poi perdere di ritmo quando sembra sul punto di imboccare la strada giusta, di fatto appiattendosi sul confronto/incontro fra i due personaggi. Se la disamina iniziale del rapporto promette una certa originalità, a partire dal “fattore acqua” in comune, che vede lui adoperarsi per sottrarre le risorse idriche ai terroristi somali (l’acqua nella sua semplice essenzialità) e lei andare alla scoperta dei misteri celati nei meandri più oscuri dell’oceano (l’acqua come insondabile fonte di vita), certo non si può parlare allo stesso modo per quanto concerne il relativo sviluppo, sempre schiacciato su una forma dialogica pressante e densa di informazioni non richieste. In particolare è nella bocca di lei che vengono messi i dialoghi più astrusi, lagnosamente didascalici, che danno forma a un personaggio macchiettistico e molto vendibile. Il lato melo certo fagocita anche McAvoy, declinato in chiavi celebrative per come resiste eroicamente alle (invero nemmeno troppo grafiche) torture jihadiste, mentre la gestione dei tempi si fa sempre inutilmente più tesa – sia mai che qualcuno si annoi.
Questo rigido vincolo alla dimensione fattuale – non è possibile individuare un lasso di cinque minuti che non sia considerabile come un avanzamento graduale di una trama che non c’è – azzoppa ogni tentativo di andare oltre la narrazione patetica, sfociando apertamente in un kitsch che non tiene conto di quelli che Wenders probabilmente aveva individuato come spunti su cui imperniare Submerged. Quel che poteva trasformarsi in un sondare due differenti variazioni così simili eppure così distanti di una condizione extra-mondana (del genere “anche l’Abisso guarda dentro di te”) attraverso una relazione teorica e mistica, si dà piuttosto come un ibrido eterogeneo composto da un generico sentimentalismo, denuncia geopolitica spicciola e rivelazioni anticlimatiche. Solo a sprazzi emerge una profondità d’analisi in grado di ragionare intorno a certe intuizioni, e il resto consiste in un mero snocciolare taglines e affermazioni buone solo per wikiquote. Si parlava di mala direzione degli attori perché da tradizione americana non c’è cinema senza industria e non c’è industria senza marchio, e quindi due attori generalmente bravi si trovano sovraesposti, rovinando sia il lato interpretativo, che il lavoro registico che si ritrova costretto a non poter elidere mai quei volti.
Ovviamente negli Stati Uniti, dove si è visto in anteprima (America first!) è piaciuto abbastanza, quando non è piaciuto è successo o perché non rispecchia la realtà o, vista la mancanza di parità di minutaggio trai due protagonisti, perché sessista. Ma guardo un po’ ‘sti americani. La mano produttiva è sempre molto vicina al bavero, e Submerged risulta così un film soffocato.