Seconda prova dietro la macchina da presa per la stella di Hong Kong Chapman To – tra i ruoli più noti quello nei due Infernal affairs (2002; 2003) come tirapiedi del capotriade Sam –, The Empty Hands (2017) è una dichiarazione d’amore al cinema di arti marziali che, chiamandone in causa icone e temi, propone senza prendersi troppo sul serio una piccola lezione di vita.
La sinogiapponese Mari Hirakawa – Stephy Tang – era una giovane promessa del karate fino a quando il padre e suo maestro Akira – Yasuaki Kurata – non la iscrisse contro la sua volontà a una competizione: dalla sconfitta subìta quel giorno, Mari ha smesso di allenarsi e di parlare con il genitore. Alla morte di Akira, Mari spera finalmente di ristrutturare il dojo di famiglia per poi affittarlo, ma c’è un imprevisto: stando al testamento, la quota maggiore della proprietà appartiene a un ex-allievo del padre, tale Chan Kent – lo stesso To. Per evitare diatribe legali, Kent propone a Mari una sfida: se riuscirà a restare in piedi per un intero incontro di karate, il dojo sarà suo.
Riunendo nello stesso film figure della statura di Yasuaki Kurata – che a più di settant’anni incarna il cinema popolare della Cina continentale e del Giappone – nei panni del sensei e di Stephen Au – in alcune delle produzioni action di Hong Kong più rilevanti degli anni Novanta e oltre – nel ruolo dell’allievo Cane Muto, il regista – a sua volta un’icona – si guadagna da subito la simpatia del pubblico amante e conoscitore del genere, preparandolo a una reinterpretazione forse anche troppo seria rispetto a quanto l’etichetta di The Empty Hands lascerebbe supporre.
Il tema centrale è il conflitto generazionale e il sofferto, ma necessario, passaggio di consegne: questa volta non si tratta però di un ristorante come in Let’s eat (2016), bensì di un luogo fisico e simbolico intimamente connesso alla carriera di To e degli interpreti – eccezion fatta per Stephy Tang, nuova a questo genere. Il karate non è un semplice sport, ma uno strumento di redenzione: per Mari, redenzione agli occhi – o meglio, allo spirito – del padre defunto e agli occhi di se stessa, rimasta coinvolta in una relazione che le ha fatto sprecare anni e sentimenti preziosi; è un ripartire da zero accessibile a tutti, nel caso della protagonista corroborato da un talento innato.
Ritroviamo dunque gli stilemi tradizionali: il training montage con i progressi sempre più rapidi, i comic relief a spezzare la tensione e l’attesissimo combattimento finale con il tipico rivolgimento che porta Mari, nonostante la brutta situazione, a vincere. Ciò non impedisce però a To di prendersi il suo tempo e di aggiungere qualcosa di nuovo, come il flashback a rallentatore di Kent – finito in prigione per aver salvato una bambina dal suo boss pedofilo – o i carrelli dal basso che scorrono sui volti affondati nelle ciotole di ramen, reinventando la dinamicità di un dialogo altrimenti molto semplice.
The Empty Hands è un film che parla al cuore riuscendo ad appassionare in modo genuino, che ha dalla sua la profonda conoscenza di To non solo della disciplina in sé, ma anche della sua drammatizzazione sul grande schermo.