Nessuno sa con esattezza come e quando Paul Schrader abbia smesso di essere una delle voci più interessanti della New Hollywood e sia diventato lo zio burbero che perde la brocca a tavola durante le feste comandate, ma pare che questa involuzione non sia iniziata di recente. È parecchio che ormai Schrader viene menzionato per via del sarcasmo di cui fa sfoggio sui social e non a causa delle creazioni di una mente capace di partorire cose del calibro di Taxi driver (la sceneggiatura è sua). Gli ultimi passi di questo barcollante itinerario hanno tutti avuto la loro prima alla kermesse lagunare, ma se in First reformed, per quanto contraddittorio, e in The card counter, a suo modo ammaliante, poteva comunque esser trovato un senso, The master gardener sembra soltanto una copia sbiadita del secondo.

Tutti e tre i film citati condividono impostazione scenica, tipologia del protagonista, e tematica principale; e se restringiamo il discorso agli ultimi due, appaiono fin troppo simili anche il rapporto con il giovane deuteragonista e le chiavi espressive scelte per raccontare la (medesima) storia. Narvel Roth – Joel Edgerton – è l’orticoltore capo incaricato della cura dei giardini della tenuta della ricca e possessiva vedova Norma Haverhill – Sigourney Weaver -, a cui viene chiesto di avviare al mestiere la di lei pronipote Maya – Quintessa Swindell -, ragazza irrequieta e con qualche problemino di droga. Narvel, ex biker 1%er, sicario a sangue freddo, suprematista nazistoide, e in ultimo collaboratore di giustizia riciclatosi giardiniere, è l’ennesimo personaggio schraderiano dal volto rabbuiato e la passione per il silenzio, con un trauma da lasciare alle spalle attraverso una vita abitudinaria e la tenue speranza di riuscire a redimersi. Come William Tell, vive le sua giornate tutte uguali senza sgarrare mentre aspetta che qualcosa succeda. Quel qualcosa è Maya, che lo riporterà sulla retta via cosicché possano vivere tutti felici e contenti coltivando gelsomini.

A essere interamente sovrapponibili non sono solo i personaggi, ma anche le idee che fanno da sfondo all’imbastitura narrativa: si tratta di un’altra storia di espiazione/rimozione (il collezionista che quantomeno aveva una sguardo più panoramico o sociale, il giardiniere è più intimistico) incentrata sulla consapevolezza e la necessità di fare ammenda per i peccati commessi e restituire speranza a un altro essere umano (più giovane, Maya ha la stessa età di Cirk) come prova tangibile dell’avvenuta redenzione. Siamo sempre dalle parti di Travis Bickle, già citato all’inizio perché questa è la seconda variazione su quel tema nel giro di appena un anno sullo spartito, ma ovviamente senza la profondità del capolavoro di Scorsese; tuttavia c’è molta distanza anche dall’incisività interpretativa del fratellino maggiore Oscar Isaac, rispetto al quale Narvel/Edgerton sembra la sottomarca da discount.

Lo stile composto e simmetrico costruito sulla decisione di asciugare l’immagine il più possibile, pur senza ricorrere all’aspect ratio bergmaniano di First reformed, è passibile di argomentazioni simili. Al di là delle citazioni naïf sulle similitudini fra persone e piante sulla rinascita e la guarigione che lasceremmo stare, non c’è nulla di nuovo rispetto a quanto visto un anno fa, soltanto un’imitazione pallida che più di una volta scivola nel ridicolo involontario, con una parte iniziale pregna di lungaggini e con la linea di trama del salvataggio (che diventerebbe salvezza per interposta persona) ridotta all’osso e priva di mordente, così come lo sono i non detti della sceneggiatura, a cominciare dal lato morboso della vedova (delittuoso sprecare la Weaver così) per finire con la riconciliazione frettolosa tra la mulatta Maya e il passato razzista del giardiniere killer.

The master gardener è nulla più di una fotocopia che spiega bene quale sia la comfort zone della fase più tarda della carriera un tempo luminosa di Paul Schrader, o di quel che ne rimane, incapace in questo caso di cambiare improvvisamente il registro per svelare sfumature aggiuntive allo spettatore o di affascinare mediante personaggi complessi capaci di generare un’atmosfera in autonomia come succedeva in The card counter – che qui funge da metro di paragone positivo ma in effetti era poco più che mediocre. Tant’è che Joel Edgerton fa enorme fatica a reggere sulle sue spalle il pur esiguo peso dell’opera, dato che sembra a sua volta un appassionato di papaveri da oppio più che di rose da quanto è ieratico (eufemismo per tedioso), deciso a mettere a nanna il ritmo del film e forse anche i simpatizzanti delle penniche improvvisare presenti fra il pubblico.

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