Vera Lockman, attrice in crisi lavorativa e spirituale, sogna di aver ucciso il suo ex fidanzato, un piccolo trafficante di droga, e di aver ficcato il suo corpo in un baule per poi disfarsene. Ma sarà davvero stato tutto un sogno? L’omicidio è avvenuto per caso, o c’è invece stata la volontà di premere il grilletto?
Questa è la trama per sommi capi di Private Life of a Modern Woman, per dovere di cronaca. Ora prendetela e buttatela pure via, perché non vi servirà mai più. Una volta saputo che il film era stato creato appositamente per Sienna Miller, ho pensato a un suo piccolo vanity project, e di vanity project infatti si tratta. Di Toback, però.
71 minuti che sembrano durare più di un film di Lav Diaz, pieni di auto-indulgenza e compiacimento, sia nelle riprese che nella sceneggiatura, e non giustificati né da una parvenza di narrazione, né dalle interpretazioni, che a voler esser buoni possono essere definite manieriste. A voler essere cattivi, lo lascio pensare a voi.
Lasciando stare per un secondo la Miller, il massimo straniamento a mio avviso si raggiunge quando in scena entra Alec Baldwin, nel ruolo del poliziotto incaricato di indagare sulla scomparsa del piccolo trafficante (mi trattengo a fatica dal virgolettare quest’ultima frase, tanto è pretestuoso e labile il personaggio). Solo che non è davvero Alec Baldwin, ma Jack Donaghy, e neanche il Jack Donaghy bravo, ma quello che ha bisogno di un centinaio di takes per portare a casa uno spot di pochi secondi, quello che viene preso da un attacco di panico all’idea di recitare qualche minuto in The Girlie Show. E non sono nemmeno sicura che l’interpretazione sia stata ironica. A tanto si è riusciti ad arrivare.
E se Sienna Miller, che pure non brilla in questo ruolo, per la maggior parte del tempo riesce a portare a casa la scena, il picco massimo di auto-indulgenza viene raggiunto quando in scena entra lo stesso Toback (per evitare di auto-compiacermi a mia volta, eviterò di accennare ai comprimari. Basti dire che l’ex fidanzato spacciatore ha raggiunto vette di inespressività prima toccate solo da Abson Mount in Crossroads, un altro vanity project, questa volta di Britney Spears).
Toback, fondamentalmente nel ruolo di se stesso, interroga Vera in un’analisi psicologica da quattro soldi e sviscera tutti i suoi problemi intrecciandoli con le proprie esperienze personali – ovviamente -, arrivando a farle dire, in uno dei massimi picchi di dialogo, che lei [parafraso] “scrive, in terza persona, per uscire dalla sua irrequietezza, è depressa a volte sì a volte no, a seconda dei giorni e non vuole essere ingabbiata in definizioni, cazzo”, in un capolavoro di entitlement da rivaleggiare la cluelessness di Cher Horowitz (che almeno era simpatica). Paradossalmente, il miglior risultato viene da Carl Icahn, che interpreta se stesso e alla sua prima volta sullo schermo, gran magnate americano e amico di vecchia data del padre di Toback, che l’ha convinto a comparire in questo piccolo cameo.
Non si salva nulla di questo piccolo progetto narcisista, se non il capotto cammello e la sciarpa rossa di Sienna Miller. Una combo effettivamente degna di una modern woman.