“The role” di Konstantin Lopushanskij

Lo spettacolo è finito

Presentato al Mosca Film Festival nel 2013 ma passato totalmente inosservato, Rol è il sesto lungometraggio di Konstantin Lopushanskij, critico e regista sempre a cavallo tra metacinema e metafora distopica, che questa volta va a indagare sul potere creatore di uomo e cinema.

Anni ’20. Nikolay Yevlakhov, attore teatrale russo, fuggito in Finlandia per sottrarsi al governo bolscevico, è bloccato. Non riesce a reagire all’inattività che lo costringe al rifiuto di tutti i ruoli offertigli, perché non li senti importanti, definitivi. Più Yevlakhov si convince che per uscire dall’apatia deve intepretare il suo ruolo nel “teatro della vita”, più nella sua mente inizia a farsi strada l’immagine di Plotnikov, generale dell’armata rossa conosciuto fugacemente. Yevlakhov vuole sostituirsi a lui, creando un nuovo se stesso, raggiungere la definizione assoluta di attore.

Il film è indirizzato su binari esplicitamente metacinematografici/metateatrali, atti però a narrare il sentimento umano in primis. Il fulcro di The role è costituito da due temi intersecantisi: la creatività umana e il prezzo da pagare per l’arte (questione da sempre molto cara a Lopushanskij) in primis, e poi il cambiamento della Russia nell’ultimo secolo. Yevlakhov, tentando di diventare un altro, si fa allegoria di una nazione che si lascia alle spalle il proprio passato. La Russia negli anni ’20 non è stabile, e l’unico mezzo che ha l’attore per comprenderla è letteralmente trasformarsi in qualcuno che è dall’altra parte della barricata, e che quindi in teoria dovrebbe capire la direzione del paese. Allora Yevlakhov non è solo rappresentatore e contemporaneamente rappresentazione dell’umanità dietro l’arte, bensì anche metafora della sacrificio doloroso ma necessario di alcuni passaggi storici.

Ma Lopushanskij mette subito in chiaro il suo concetto di creatività richiamandola persino sulla sua stessa persona, palesando la finzione filmica già dall’incipit. La pellicola si apre su un cielo stellato, esattamente il modo in cui si chiudeva Turn of the century, l’ultimo film di Lopushanskij marcatamente sulla Russia moderna: un cielo stellato, che però si rivela nel lungo piano sequenza a camera fissa, che tanto ricorda Stellet Licht, uno specchio, nel quale il protagonista si guarda, assorto, meditando sulla sua identità in modo quasi amletico. La finzione filmica è ribadita anche nella scena immediatamente precedente al primo punto di svolta nel film: Yevlakhov si posiziona davanti a una lampada che, come il proiettore dà vita al film nel cinema, predispone il palcoscenico della vita per il personaggio. Segue il flashback dell’incontro fra l’attore e Plotnikov: attraverso un campo-controcampo abbiamo una fugace occhiata trai due (interpretati entrambi da Maksim Sukhanov, che nasce proprio come attore teatrale) e subito quindi un ideale sdoppiamento del sé.

Ma un flashback non basta, il delirio di Yevlakhov prosegue e la sua sostituzione inizia coinvolgere spazio e tempo. Si sposta in Siberia, dove i due si erano incontrati e a lui si sostituisce. Abbiamo un palcoscenico, un ruolo, e così inizia la seconda parte del film. La narrazione si fa più tragica, la pietà per il singolo si fa più tangibile perché più Yevlakhov penetra nell’immagine di Plotnikov più capiamo che nemmeno questi è in grado di comprendere il suo paese. La sostituzione non regge perché il generale non è il ruolo della vita, è parziale anche lui, e così l’attore ha come unica possibilità quella di rifugiarsi nella pietà, di Olga e di Spirinidov, l’amante e l’amico del generale, calandosi semore più nel generale, fino alla sublimazione. Yevlakhov vede il sogno di Plotnikov, ora è un’altra persona, e non ha più bisogno di cercare un ruolo perché nel suo ruolo l’attore s’è perso, tanto che anche l’ambiente lo riconosce come il personaggio che interpretava. Il cinema inganna l’uomo: l’uomo crea arte al prezzo di se stesso.

Tecnicamente questa linea di pensiero è resa attraverso la scelta del mascherino del cinema muto per tutta la seconda parte del film (impossibile non notare un’eco di Post tenebras Lux, un altro film di Reygadas) che ricorda costantemente la finzione scenica, unita al bianco e nero nitido che marca le tre dimensioni. Così la regia di Lopushanskij si fa rigorosamente teatrale, con piani sequenza elaborati ma lentissimi con un angolo di ripresa leggermente inclinato verso l’alto o il basso e sempre orientati verso spazi chiusi, come se l’occhio dello spettatore guardasse da una galleria o dalla platea di un teatro. Nel complesso quindi il regista russo svaluta il mezzo tecnico e s’affida molto di più al talento di Sukhanov (con pregevole esito) com’è giusto che sia vista la linea di pensiero del film. Ci troviamo quindi di fronte a un metacinema sottilissimo che non usa il mezzo come immediato riconoscimento dell’inganno ma che celandosi ne evidenzia la natura.

In conclusione, The role è un film che segna un punto cardine nel metacinema degli ultimi anni, e va a firmare inoltre, assieme a Quell’ultimo giorno – Lettere di un uomo morto, l’apice dell’opera di Lopushanskij, autore purtroppo sottovalutato in tutta Europa.

Titolo originale: Rol
Nazione: Russia
Anno: 2013
Genere: Drammatico
Durata: 132′
Regia: Konstantin Lopushanskij

Cast: Maksim Sukhanov, Anna Geller, Aleksandr Efremov

Data di uscita: Mosca 2013