L’esordio alla regia nelle GdA veneziane di Xiaoxuan Jiang è una rielaborazione di uno dei topoi festivalieri più frequenti quando si tratta di opere prime. To kill a mongolian horse è un’ode a un mondo in procinto di sparire che trova il suo senso nell’unicità della realtà della narrazione, peraltro ispirata alla vera storia del protagonista – Saina – che interpreta se stesso e ripercorre i passi, in questa sede più romanzati, di una fase drastica della sua vita. Ambientata nella Mongolia Interna, de iure regione autonoma della Cina, la prima fatica della promettente venticinquenne (già encomiata sulla corta distanza grazie a Graveyard of Horses) ha a che fare con lo spirito e le tradizioni del territorio in cui prende forma, raccontando un luogo circoscritto e distante dall’interesse del pubblico (grande o piccolo che sia) con un protocollo ormai ben collaudato.

Non sappiamo se Saina abbia visto Il cavaliere elettrico di Pollack però è evidente che potrebbe identificarcisi senza eccessivi sforzi. Pastore di giorno e cavallerizzo di notte, al Robert Redford di Baotou manca solo mettersi rapire le ninfe per considerarsi a tutti gli effetti un centauro, tanto è il tempo che passa in groppa a un cavallo. La sua attività di mandriano però sta collassando perché la controglobalizzazione cinese sta rivoluzionando l’economia anche di queste zone così remote, e lui ormai è costretto a pensarsi più come showman che pecoraio: di sera interpreta un altro ruolo, quello dell’incarnazione di un’identità etnica che viene spogliata del respiro culturale per diventare oggetto voyeuristico-feticistico sensibile allo sguardo della mandria di turisti, desiderosa di ammirare lo spettacolo di un’immaginario stereotipato. Man mano che la doppia vita di Saina si squaderna da una contraddizione all’altra, anche alla luce della spaccatura della sua famiglia (menzione per il padre alcolizzato e ludopatico), quest’ambiguità si rivela sempre più dura da affrontare giorno dopo giorno.

Sebbene l’antinomia tradizione/modernità domini la prospettiva centrale di To kill a mongolian horse, ad attirare l’attenzione dello spettatore molto più della declinazione del canovaccio standard è la ricchezza di riferimenti che delineano la duplicità della vita del personaggio principale e la natura conflittuale di ogni piano da lui abitato. Cavalleggero dimezzato con una staffa nel passato e una nel futuro, cresciuto in campagna (dove pascola il piccolo gregge) e adottato dalla città (dove abitano l’ex moglie e il figlio a lei affidato), stretto fra i paesaggi sterminati della sua infanzia e l’intrigo architettonico del nuovo spazio urbano, Saina è una rappresentazione vivente di una dualità irrisolvibile, un fantino schizofrenico che non distingue più fra sella e cavalcatura.

La stratificazione nella scrittura del personaggio si rivela nella percezione che lo stesso ha della sua mascolinità, elemento centrale che Jiang evidenzia già a partire dalla battute iniziali quando pone le basi per condurre, lungo tutto il corso del film, un discorso critico sull’attorcigliarsi della nozione di identità mongola e dell’esibizione della virilità, evidenziando quindi l’ennesima doppiezza: Saina non sa né come essere un mongolo né come essere un uomo, sigillando un’equiparazione plastica del carattere etnonazionale alla netta predominanza dell’autocelebrazione maschile – in particolar modo nella reificazione spettacolarizzata della medesima. Più testo e meno sterone, in sintesi.

E nonostante il portato saggistico delle sue immagini To kill a mongolian horse rimane un’opera semplice (eppur non facile, così come complessa ma non complicata) che trae forza espressiva dalla linearità delle situazioni, vivificate dall’emotività rarefatta e immerse in una mise teoretica di composizioni affilate, sempre frammentate dall’aleggiare di uno spettro cromatico sibillino. A fare da contrappunto a quello che altrimenti sarebbe l’esordio principe di questa 81esima edizione va rilevato anche un certo esistenzialismo compiaciuto esasperato dalla convergenza di ogni percorso nell’elogio della sincera banalità delle prove della vita quotidiana, ma non sarà certo una venalità del genere a impedirci di rivedere alla kermesse italiana Xiaoxuan Jiang, magari con un secondo lavoro ancor più costruito, dopo aver già gettato nella laguna cavallo e cavaliere.