La Giuria di questa cinquantottesima edizione del festival di Karlovy Vary era composta da Geoffrey Rush, ben noto attore australiano, da una delle nuove scoperte del cinema ungherese, il Gabor Reisz autore di “Una spiegazione per tutto”, da un’attrice ceca meritoriamente nota per le sue interpretazioni equilibrate e atmosferiche, Eliska Krenkova, dallo sceneggiatore islandese Sjon e infine dalla produttrice americana Christine Vachon. Qualcosa ci faceva subodorare che avremmo avuto un palmares un po’ “buonista”, e le aspettative si sono avverate.

A differenza delle ultime edizioni, in effetti, l’elenco dei premi annunciati alla cerimonia ufficiale di sabato 6 luglio ci ha lasciato un po’ delusi, e non solo perché purtroppo non abbiamo avuto modo di vedere il vincitore del Globo di Cristallo (che ci era sembrato fin dall’inizio un po’ eccentrico rispetto agli stili degli altri concorrenti), ma anche perché uno dei film che ci aveva meno convinto ha fatto incetta di onorificenze varie ed eventuali, probabilmente per i valori di resilienza e indipendenza femminile in esso espressi, che mettono un po’ a posto la coscienza, ma rimangono, a nostro avviso, un po’ superficiali. Andando con ordine, il nuovo saggio cinematografico del pluripremiato documentarista Mark Cousins, A Sudden Glimpse to Deeper Things, si è portato a casa il premio principale, con la sua elegante e originale descrizione della figura dell’artista scozzese Wilhelmina Barns-Graham. La pittrice non è forse nota quanto merita, e il tentativo di Cousins di inquadrare le sue ossessioni, epifanie e visioni all’interno del proprio specifico stile porterà probabilmente a ristudiare la sua opera, qui rifiltrata attraverso riflessioni su temi importanti, come la neuro-diversità, i cambiamenti climatici e le identità di genere.

Un altro film di forte impronta e presenza femminile ha conquistato il Premio Speciale della Giuria, il Gran Premio della Giuria Ecumenica e il Premio della Giuria FIPRESCI, oltre al premio per la migliore interpretazione femminile, andato a Helga Guren. Si tratta del debutto nel lungometraggio della norvegese Lilja Ingolfsdottir, Loveable, ma la vicenda un po’ ossessiva che narra delle paturnie tossiche e degli isterismi vari della protagonista ci aveva lasciato piuttosto perplessi. Se ci è permessa una battuta piuttosto stupida, ci era sembrato di vedere un film di Baumbach in cui… ad urlare è solo la donna, oppure una versione sbilenca e cheap di Scene da un matrimonio, ma qui, invece della profondità di Bergman, vediamo scorrere lunghe discussioni sulle proprie ed altrui colpe, sedute psicanalitiche di coppia dal potere di coinvolgimento piuttosto dubbio, tira e molla sentimentali non particolarmente originali. Non sappiamo cosa ci abbiano trovato di eccezionale le giurie premianti, ma evidentemente siamo noi a non saper apprezzare le doti di questa opera prima, il cui “messaggio” principale è che bisogna essere capaci di volersi bene, come da titolo. Tutto il resto, sembra, verrà da sé.

Più interessante, misterioso, per quanto non perfettamente risolto, ci è parso il lavoro della regista di Singapore Nelicia Low, che per il suo Pierce è stata ritenuta la migliore regista. È la storia di due fratelli schermidori, uno ligio ai valori familiari e materni, l’altro potenziale psicopatico, appena uscito di prigione per un’accusa di omicidio di cui egli insiste ostinatamente a negare la volontarietà. La scherma come metafora del dominio psicologico sugli altri e sulle proprie debolezze, i rapporti tossici fra fratelli psicologicamente problematici, lo squilibrio del male quotidiano che si insidia nelle famiglie borghesi più rispettabili, tutti questi temi sono impaginati dalla Low con una equilibrata maestria compositiva, dove la simmetria instabile del quadro (collegata al rapporto conflittuale fra i due protagonisti), le soluzioni di regia mai scontate e i movimenti precisi che seguono le sfide sulla pedana giustificano ampiamente la scelta della giuria.

Il premio per la migliore interpretazione maschile è andato invece ex-aequo alla coppia protagonista del film olandese Three Days of Fish, Ton Kas e Guido Pollemans. I due si integrano perfettamente, si stuzzicano, si completano drammaturgicamente nei ruoli di padre sfuggente e figlio mai cresciuto che cuce loro addosso il regista Peter Hoogendoorn. Due dei film che ci avevano interessato di più hanno preso invece solo dei “contentini”. Parliamo di Xoftex e Our Lovely Pig Slaughter, che strappano in extremis una Menzione Speciale della Giuria. Il primo è una rielaborazione intrigante ed originale della tragedia dei profughi sballottati nei campi della “civilizzata” Europa, con cui il regista Noaz Deshe (già premiato a Venezia 2013) reinterpreta in chiave horror e psicanalitica i drammi vissuti da migliaia di esseri umani in fuga da guerre e persecuzioni. L’altro ha portato l’unico riconoscimento al cinema di casa (che quest’anno ci ha comunque convinto abbastanza, con opere varie e non banali disseminate nelle varie sezioni): l’esordiente ceco Adam Martinec gioca sul crinale della nostalgia rurale menzeliana e della canzonatura ai danni dei luoghi comuni del carattere nazionale ceco, presentandoci vizi e virtù di un gruppo di “cechi medi”, riunito attorno alla tradizionale uccisione del maiale. A nostro modesto parere leggermente migliore era proprio l’altro concorrente nazionale, quel Tiny Lights di Beata Parkanova, che con un po’ di coraggio in più avrebbe potuto portare anche un sorprendente ma meritato premio all’interpretazione della bambina esordiente Mia Banko, che domina la scena con sicurezza sorprendente.

Fra gli altri film in concorso che vanno via a mani vuote vogliamo citare almeno The Hungarian Dressmaker della slovacca Iveta Grófová, interessante spaccato della Slovacchia degli anni Quaranta, stato collaborazionista del Terzo Reich, dove ritroviamo, fra gli altri, la brava Alexandra Borbely, già protagonista di Corpo e anima di Ildiko Enyedi, o ancora il contributo di un’altra cinematografia da seguire sempre con interesse, quella georgiana: per quanto alla lunga si perda fra le sue contraddizioni logiche e le pur interessanti ossessioni dei suoi personaggi, Panopticon di George Sikharulidze è sicuramente un altro (l’ennesimo in questa competizione) debutto di qualità, che si interroga sulle interconnessioni fra ossessioni sessuali, derive nazionaliste ed eccessivo zelo religioso.

Almeno una menzione la meritano anche il croato Celebration di Bruno Anković che riprende di nuovo il tema del nazionalismo, e cerca di illustrarne le possibili radici in modo inaspettato e originale, e “Banzo”, della portoghese Margarida Cardoso, come nel succitato “Xoftex” incentrato sugli squilibri e le colpe dell’Occidente: anche qui il tema non nuovissimo della denuncia del colonialismo europeo è trattato attraverso il filtro della malattia e della nostalgia di casa, in un’impaginazione classica di alto valore estetico (per quanto mai davvero coinvolgente) che ci ha ricordato alcuni lavori di Lucrecia Martel.

Oltre alla meritevole retrospettiva sui film ispirati da Kafka, almeno di sfuggita ricordiamo infine le diverse opere sparse nelle varie sezioni e collegate in vario modo alla guerra russo-ucraina, tema qui sempre molto sentito, tanto che gli attenti organizzatori hanno invitato non solo Loznica, ma anche, in prima mondiale, un’opera sui generis, una sorta di “estratto di vita” dalle trincee del regista-soldato Oleh Sencov.

In conclusione, varie sezioni capaci di stimolare diversi gusti cinematografici, un’attenzione confermata sui temi più scottanti, e moltissimi esordi, alcuni dei quali davvero interessanti, che aiutano a lasciare buoni ricordi di questa rassegna cinematografica sempre aperta alle scoperte e non fossilizzata sui soli nomi già affermati. È sempre un piacere venire qui e farsi stupire, anche dai film che non ci piacciono. Non è forse questo uno dei compiti dei grandi festival?