La Xoftex del titolo rappresenta uno dei tanti infausti parcheggi umani d’Europa, luogo isolato dalla realtà dove sono passati, ma forse in maggior parte si sono semplicemente accumulati senza mai muoversi, i destini di migliaia di uomini e donne in fuga da varie catastrofi “non naturali”, ovvero indotte dall’uomo, come persecuzioni, sperequazioni sociali e guerre. Dopo mesi, anni di attesa gli ospiti forzati di simili campi profughi iniziano a sviluppare percorsi paralleli di analisi e interazione con la realtà.

Noaz Deshe è un regista che potremmo definire “plurinazionale”, cittadino del mondo: su alcuni siti lo danno per nativo di Bucarest, altrove il suo luogo di nascita è…Buenos Aires, mentre ultimamente egli si muove fra Berlino e Los Angeles. Dovunque sia nato, ci pare di capire che il mondo è la sua casa, soprattutto dove il mondo non funziona…Non è affatto un novellino, se consideriamo la sua partecipazione con diverse funzioni creative ad opere di altri autori, ma soprattutto se ricordiamo il “Leone del futuro” per la migliore opera prima che si portò a casa dalla Mostra di Venezia del 2013, dove partecipava nelle file della “Settimana Internazionale della Critica” con il suo “White Shadow”, dedicato alla sventurata sorte degli albini in Tanzania. Il suo interesse per i poveri del mondo e i derelitti lo ha portato ad impegnarsi in prima persona nell’aiuto e nella documentazione delle condizioni di vita disumane di vari profughi arenati sulle coste europee, e all’interno di questo suo lodevole attivismo Deshe ha evidenziato un campo profughi particolarmente problematico, quello di Softex, una ex-fabbrica di carta igienica non lontana da Salonicco, che con la sua precedente destinazione d’uso e i rifiuti mai o mal processati non offre di certo le migliori condizioni di vita per chi scappa dalla guerra in Siria o da altre catastrofi umanitarie.

Il luogo d’azione vede leggermente modificato il nome originale, e diventa lo scenario per un film metaforico e “transmentale” sulla condizione dei profughi. Vediamo, sì, le varie vicissitudini, sofferenze, persecuzioni cui sono sottoposti gli ultimi della terra, vuoi da autorità greche non troppo bendisposte, ma anche dai caporioni e sfruttatori, che approfittano dello stato di necessità dei propri connazionali per estorcere loro gli ultimi risparmi, in cambio di promesse poco credibili di “passaggi sicuri” verso condizioni di vita più umane. Ed è proprio l’ambizione a raggiungere mete europee più accoglienti a suggerire uno dei meccanismi narrativi più spiazzanti di questo film, ossia il gioco. Nell’incipit seguiamo, un po’ esterrefatti, una sorta di messa in scena in cui i profughi si dividono in due gruppi, i richiedenti asilo e gli impiegati degli Uffici per l’immigrazione: ognuno dichiara il paese europeo cui ambisce, ma gli viene sempre proposto un angolo del Vecchio Continente poco noto o meno desiderabile. Punti al welfare della Svezia o vorresti vedere la Tour Eiffel? Vieni assegnato alla Polonia. Vuoi andare ad ammirare le montagne svizzere e a mangiare cioccolata? Ti verrà proposta la Bulgaria, in cui sembra essere attivo un maniaco persecutore di profughi, come nelle fiabe con i mostri e le streghe cattive. Altro procedimento ludico e di rielaborazione della triste quotidianità è la meta-narrazione organizzata dagli ospiti della struttura, che inventano scenari alternativi, ministorie fictionali, storie horror di zombie che infestano il campo, ma anche finti telegiornali trasmessi da una improbabile Xoftex TV, per cercare di rielaborare con una auto-riflessione terapeutica, ma anche con le armi dell’ironia (si veda l’intervista ad un razzo, interpretato da uno dei profughi) la propria situazione quasi senza scampo.

E qui, ai precedenti ben collegato, scatta il meccanismo principale con cui il regista incornicia la sua originale riflessione sulla situazione dell’emigrazione forzata: la stessa linea narrativa principale, quella che ruota attorno al giovane siriano-palestinese Nasser, che cerca di ottenere un permesso di soggiorno e segue l’esempio di un suo connazionale divenuto importante scienziato, si trasforma e sfocia in un horror psicologico. Man mano che si va avanti nella narrazione gli elementi reali, l’incertezza psicologica dei rifugiati, le condizioni sanitarie allarmanti, la violenza interna e lo sfruttamento onnipresente del debole sul più debole intaccano gradualmente e infine rompono la superficie del realismo, facendo brillare lampi di visioni allucinanti, che collegano il topos del viaggio, le pericolose esperienze di navigazione per mare, il dramma del Mediterraneo come grande cimitero acqueo ad una rielaborazione fantastico-onirica che frammenta la visione, porta freneticamente avanti e indietro nel tempo e nello spazio la spola delle vicende reali, e lascia quasi intontito in una sorte di viaggio spaziale allucinato il povero protagonista, che vede la propria sanità mentale sfaldarsi insieme alle speranze di successo della sua esistenza fisica reale.

La sovrapposizione di realtà e sogno, lo scontro fra desiderio di libertà e violenza animale che necessariamente divampa in tali condizioni disumanizzanti portano i protagonisti ad essere quasi costantemente immersi in un’atmosfera onirica, in cui non è facile definire lo status di realtà delle varie scene. Questa confusione mentale e antropologica trova una corrispondenza concreta (e forse una causa) nella malattia del sonno che colpisce alcuni dei profughi, probabilmente dovuta alle scorie industriali che appestano aria e acqua del campo.

Deshe riesce insomma a “smaterializzare” la crisi dei profughi che ha potuto studiare in prima persona, ma paradossalmente con ciò la rende ancora più reale e universale, inquadrando i patimenti di migliaia di persone senza speranza in un drammatico gioco con l’orrore della psiche perseguitata. Il suo approccio fonde la drammaticità di Green Border della Holland (fra l’altro i due film condividono un ottimo attore siriano, Mohamad Al Rashi) e l’approccio metaforico di “Jupiter’s Moon” dell’ungherese Mundruczo, offrendo l’opera a nostro avviso più sorprendente e necessaria del concorso ceco di quest’anno. A maggior ragione attendiamo dunque quello che è annunciato come il suo prossimo progetto, un documentario sull’Ucraina, pensato in collaborazione con il dissidente russo Pjotr Verzilov, legato alle Pussy Riot e perseguitato dal Cremlino.