“Non sapevo nulla del popolo Jenisch finché ho incontrato Mariella Mehr, una scrittrice e poetessa sulla quale dovevo realizzare un documentario. Quando ho appreso le vicende di questa antica etnia nomade europea, gli “zingari bainchi”, ho pensato che una fiction mi avrebbe consentito di esporre in modo più libero e più efficace le vicende che avevo appreso con sgomento dalle sue parole, dai suoi scritti e dai documenti che avevo studiato”. Così la regista Valentina Pedicini spiega la genesi di Dove cadono le ombre, il film presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2017. Un lavoro frutto di quattro anni di indagini e documentazione sulle persecuzioni perpetrate nei confronti degli Jenisch in Svizzera fino al 1986, ossia fin quasi a oggi.
Gli archivi svizzeri hanno nel frattempo desecretato le cartelle cliniche delle strutture, ora chiuse o altrimenti utilizzati, dove erano stati rinchiusi soprattutto i minori Jenisch, che erano sottoposti a un programma eugenetico ferreo e disumano. “Con mia sorpresa – spiega la Pedicini – ho appreso che solo pochissime delle vittime sopravvissute a quel trattamento hanno poi richiesto di visionare gli atti. Mariella Mehr, suo figlio e alcuni lo hanno fatto e, fiduciosi del mio lavoro, le hanno mostrate anche a me. Il mio film si basa dunque su questi documenti che sono palpitanti e dolorosi, anche se sono solo una parte della realtà: chissà quali altri segreti custodiscono le cartelle che non ho visto perché la legge, ovviamente, consente la visione ai soli soggetti coinvolti”.
“Ho così cercato – prosegue la regista – di focalizzarmi su tre figure principali di vittime, che esemplificassero i tre diversi esiti dei trattamenti nella clinica Pro Juventute: il giovane Hans, mutilato irreversibilmente nel corpo e inebetito nella volontà; Franziska, che incarna in rifiuto di ripensare al passato (“dimenticare è l’unico modo per poter andare avanti”); Anna, che sa di essere stata plasmata dall’educazione ricevuta in clinica e che tuttavia ricerca una sua identità rimossa e forse nemmeno mai conosciuta. Nella scena della partita a carte l’apparentemente bizzarra diagnosi di sé stessa, che Anna pronuncia ubriaca, è esattamente il testo della cartella clinica della piccola Mariella Mehr.
Infine vi è la figura, intensamente interpretata da Elena Cotta, di Gertrud, l’orami anziana persecutrice, una sorta di carnefice innocente, affetta dal quella banalità del male che la rese convinta fino alla fine di agire per il bene dei ragazzi”.
La scabrosità del tema, il dolore e i silenzi sono concetti difficili da rendere sullo schermo: l’intensità degli sguardi delle protagoniste è di particolare efficacia, tanto che Federica Rosellini, che interpreta Anna, è stata premiata a Venezia come a migliore attrice emergente nella sezione parallela delle Giornate degli Autori. La musica, utilizzata con parsimonia, e l’uso del colore naturale senza illuminazione artificiale sono due scelte adottate, e a mio parere riuscite, per rendere anche attraverso la tecnica il senso di angoscia e di paura, la rabbia, la solitudine.
Con questa opera prima di grande valore, la 38enne regista pugliese apre un capitolo di storia tenuto colpevolmente celato ai più e che dovrà ancora far molto parlare.