Esordiente a Venezia71 con The coffin in the Mountain (2014) e dopo l’opera seconda Distance (2016), Xin Yukun torna in Italia, questa volta a Udine con Wrath of silence (2017), un atipico revenge movie infarcito di simboli che nonostante l’ottima partenza finisce per perdersi nelle sue stesse marche stilistiche e tematiche, per quanto raffinate.
Nella Cina del Nord al confine con la Mongolia vive il pastore muto Zhang Baomin – Yang Song – con la moglie e il foglietto Lei. Alla scomparsa di quest’ultimo – un rapimento? – Baomin non perde tempo e si mette a cercarlo in lungo e in largo, arrivando a scontrarsi con gli scagnozzi del corrotto padrone della miniera Chang Wanning – Wu Jiang –, il quale lo avvicina con la promessa di riportargli suo figlio. Trovandosi suo malgrado coinvolto in un gioco di potere più grande di lui, Baomin dovrà tentare di salvare allo stesso tempo il suo bambino e quello di un misterioso avvocato.
Ambientato nell’inferno delle miniere di carbone dell’entroterra – lo stesso inferno descritto, benché in tutt’altro tono, dal documentario Beixi moshuo (2015) di Zhao Liang, presentato a Venezia72 –, il terzo lungometraggio di Xin salta subito all’occhio per la sfida che si propone sul piano della ricerca estetica: ricerca del suono in un luogo dove a parlare sono soltanto le roboanti macchine per l’estrazione, con l’ulteriore limite della parola per il protagonista, che ha perduto la lingua in gioventù; ricerca dell’immagine in un paesaggio desolante e omogeneo, dove la presenza umana si cerca con la lente d’ingrandimento – la quale farà infine collassare tale passaggio geologico e simbolico, come testimoniato dal finale.
Wrath of silence si compiace del proprio gioco intellettuale, con un personalissimo ma abbastanza scontato apparato simbolico: la maschera di Kamen Rider che funge da memento riportando alla mente di Baomin la corporeità del figlio; il movimento di tensione dell’arco e l’arco stesso, significanti la caccia di cui Baomin è preda inconsapevole – anche se la supremazia del “cacciatore” Chang si rivelerà molto precaria; l’oscurità che si cela dietro una porta socchiusa o al fondo di una grotta, desiderio di morte e morte stessa, chiave decisiva per decifrare l’ingannevole epilogo; infine – ma l’elenco potrebbe continuare –, la vera e propria ossessione per la carne e l’atto di cibarsene, speculare al cannibalismo delle grandi società estrattive nei confronti dei loro “compagni” operai.
Xin condisce il tutto anche con qualche inserto gangster – scazzottamenti all’arma bianca e regolamento di conti mafioso –nuocendo al ritmo e alla coerenza dell’insieme: non riesce cioè a far convergere in maniera armoniosa i due binari, quello ruralista e minimalista di Baomin e quello sofisticato e patinato dell’avvocato di Chang, accomunato a Baomin dal rapimento della figlia.
Wrath of silence è un’opera esemplare per l’uso maturo e ponderato della macchina da presa da parte del regista, il quale però si rivela un narratore troppo autoindulgente e compiaciuto, la cui sofisticatezza si rivela un’arma a doppio taglio in grado di sfumare gli orizzonti interpretativi oltre il lecito. Incerto fino in fondo, non si capisce bene dove voglia andare a parare.