Dopo il successo di tre anni fa con l’acclamato documentario Homeland: Iraq Anno Zero, il regista iracheno Abbas Fahdel torna a presentare un film all’interno del concorso internazionale del Festival di Locarno, scegliendo però di ambientarlo non più nel suo paese ma in Libano. È proprio in una desolata valle del paese mediorientale che il regista inserisce le vicende di Yara, giovane protagonista che dà il nome al film. Fahdel, che oltre alla regia ha si è occupato anche della sceneggiatura, del montaggio e suono, decide di raccontare una storia al limite dell’essenziale, tra lunghe sequenze silenziose tra le valli immense e brevi dialoghi tra la giovane protagonista e i pochissimi altri personaggi. La Yara del titolo infatti è una giovane orfana che vive con l’anziana nonna in montagna, che oltre a lei è forse l’unica abitante (se si escludono capre, gatti e galline) nel raggio di svariati chilometri. A rompere la monotonia e la solitudine della ragazza sarà il giovane Elias, che passando per caso vicino alla casa di Yara la conoscerà dando inizio per lei alla sua prima storia d’amore, subito interrotta da una imminente partenza del ragazzo per l’Australia.
L’essenzialità della trama e in generale degli elementi in gioco (tra pochi personaggi, poche battute e poche ambientazioni, sebbene la valle utilizzata come location sia a dir poco mozzafiato) da un lato rischia di rendere il film lento e a tratti pesante un film di per sé non troppo lungo (nemmeno un’ora e quaranta), ma dall’altro permette a Fahdel di concentrarsi su elementi che esulano dalla narrativa: la prima cosa che salta all’occhio in Yara infatti è l’uso che il regista iracheno fa del colore e della luce (dato che, tanto per cambiare, ha curato anche la fotografia), incastonando nel verde brillante della gigantesca valle prima il rosso dei gatti che saltano di qua e di là, poi il color ruggine delle capre che la giovane Yara porta al pascolo come scusa per appartarsi col suo Elias, poi il bianco della pelle della ragazza.
Sia chiaro, Yara non è né un color test per un televisore al led né un esercizio di stile, dato che i suoi contenuti, seppur essenziali, ce li ha: è un racconto sulla solitudine, sulla paura di rimanere soli, sul dilemma eterno della scelta tra le proprie radici e il proprio futuro, un racconto che però viene esposto allo spettatore nel più semplice dei modi, sacrificando così forse (o almeno in parte) la godibilità del film. Il rischio più grande è quello della noia, arginato comunque da una breve durata e da un livello molto alto del comparto tecnico, dalla regia alla fotografia, che rende piacevole la visione.
Un valore aggiunto al film sono sicuramente le piccole trovate a livello simbolico, come il fucile che troneggia sopra il letto della giovane Yara, quasi a difenderla da chiunque voglia provare a portarla via da quella casa che, in un modo o nell’altro, prima o poi dovrà lasciare. Un plauso va anche agli attori, tutti non professionisti, in particolare all’anziana Mary Alkady nel ruolo di una nonna contadina che sembra scesa cinque minuti fa dalle valli in cui è ambientato il film.
“Yara” di Abbas Fahdel
Una valle di lacrime?