Cineasti del presente è una sezione che continua a stentare in questa 71esima edizione del Locarno Festival, e, a parte alcune eccezioni di discreta qualità, non sembra riuscire ad andare oltre un livello sostanzialmente mediocre. Questo Alles ist gut non fa eccezione, troppo concentrato su se stesso per riuscire a mettere assieme un discorso d’insieme. Jenne è una giovane ragazza che lavora nel ramo dell’editoria. Vive la vita giorno per giorno, con semplicità, è costretta però a ravvedersi quando respinge il cognato del suo datore di lavoro, che successivamente la violenterà sessualmente, non accettando il rifiuto. Rimasta incinta, è comunque decisa a non riportare l’accaduto alla polizia perché, sembra, non voglia quel genere di trambusto attorno a sé. Ma la cosa degenera quando il fidanzato Piet scoprirà dell’aborto, immaginando tutt’altro scenario.
Così come è difficile risultare chiari nell’esporre la sinossi in poche righe è altrettanto complicato tentare di fare luce su questo film nel suo essere. Una sorta di critica e/o disamina alla mentalità che inculca nelle donne la necessità di una nuova perversa cultura della vergogna che impedisce loro di chiedere aiuto? Un elogio di una forte personalità che ribalta lo stereotipo affrontando tutto da sola mentre il mondo la fuori non la comprende? Una società che non riconosce quel genere di problema tanto da non notarlo? Non v’è alcun elemento che aiuti a discernere verso quali direzioni portino le scelte della giovane regista – qui all’esordio dietro una macchina da presa, come facilmente intuibile – né che cosa ci voglia obiettivamente comunicare.
Alles ist gut è un film confuso, tremendamente confuso, incapace di andare a parare da una qualche parte dopo una buona impostazione iniziale, tutto sommato. Camera fissa, montaggio lineare, brevi piani-sequenza collegati fra loro da stacchi netti quasi documentaristici, e la vita di una donna comune. Cosa le sarebbe successo, l’avremo scoperto dopo, ma sembrava quantomeno esserci un’attenzione nei confronti del personaggio, una volontà di decostruzione. Invece dal momento topico in poi Trobisch inizia a non sapere più che fare: nella maniera più sincera, la mdp scotta. Si perde nella sua narrazione, inutilmente rapida e corposa. Si affastellano una dietro l’altra idee, dialoghi intricati (o almeno con velleità di esserlo), simbolismi et similia senza una vera e propria soluzione di continuità; tante idee, appunto – non sapremo mai se buone o cattive, si ritrovano tutte imbrigliate in questa messa in scena fracassata – che sommandosi non formano un prodotto finito, bensì un’improbabile accrocco pasticciato di suggestioni astratte.
Se a questo si aggiungono i siparietti casuali sulla vita di coppia di altri personaggi poco approfonditi, un rapporto con lo stupratore ai limiti del ridicolo (sembrano quasi due fidanzatini che hanno litigato dopo il diploma di terza media) e una trasformazione caratteriale del fidanzato (vero) Piet a seconda delle esigenze sceniche, ne viene fuori soltanto un pastiche improponibile. E, vale la pena ritornarci, Alles ist gut gira intorno fino a toccare, se non addirittura sfiorare appena, tutta una serie di argomenti senza trattarne nessuno. Si potrebbe catalogare come una sorta di Glaubenberg, giusto per fare un paragone sullo stesso campo da gioco, ma manca di capacità visiva, di appena un accenno di eleganza, financo tensione drammatica o almeno un’interpretazione della protagonista tale da rendere il tutto meno pesante…
Confuso e ancora confuso, ricorda i primi corti giovanili dei registi talentuosi che non sanno ancora come gestirsi non avendo sviluppato sufficiente senso della misura. La cifra perfetta della sezione Cineasti del presente del 2018 locarnese.