Appena prima che i cinema di mezzo mondo chiudessero a causa dell’epidemia di COVID-19, Bacurau stava facendo il giro dei festival minori tra Europa e Stati Uniti confermandosi, dopo il Premio della giuria a Cannes, come una delle sorprese di questa stagione. Western atipico, ma anche un po’ cannibal-movie, con una spruzzata di surrealismo ed echi del primissimo Glauber Rocha, la terza opera di Kleber Mendonça Filho – sempre in collaborazione con lo scenografo Dornelles, da cui per l’occasione viene affiancato dietro la mdp – è un pastiche di generi e suggestioni, di stili e atmosfere volutamente confusionario e proprio per questo affascinante, molto lontano dalle regie precedenti Il suono intorno e Acquarius, due drammi convenzionali.
Le contraddizioni e la dialettica degli opposti dominano il film, che prende il titolo dal villaggio fittizio del Sertão in cui è ambientato: Bacurau è sempre stato un borgo in mezzo al nulla, ma all’improvviso diventa ancora più sperduto del solito nel momento in cui, in un prossimo futuro, misteriosamente sparisce dalle mappe, non si collega più alla cella telefonica e viene tagliato fuori dal resto del Brasile. Il sindaco ha infatti venduto il villaggio a un commando militare amatoriale composto da impiegati americani in cerca di emozioni forti, ma Bacurau non è un safari umano e la popolazione costituirà una resistenza per dimostrarlo.
Il film si evolve lentamente, si prende il suo tempo per farci conoscere questo luogo isolato e le sue tradizioni. Tradizioni che sopravvivono a metà, gli abitanti non sono gli indigeni di un mondo-movie ma hanno computer e tablet a disposizione, per loro la chiesa è luogo di aggregazione e spirito comunitario più che fede, mischiano la medicina tribale con quella moderna, vivono senza pudore nudità e sesso come in The wicker man ma certo non sono selvaggi, hanno un’organizzazione amministrativa di tutto rispetto e una competenza specifica in ogni campo, prima fra tutte la dottoressa interpretata da Sonia Brago che sbraita al funerale della matriarca Carmelita. Proprio muovendo i primi passi davanti allo spettatore in questo scenario luttuoso, Bacurau appare come un intrecciarsi di motivi difficilmente conciliabili se non addirittura discordanti. Nonostante la morte invada la pellicola dall’inizio alla fine e il business più redditizio sia quello delle bare (citazione a Per un pugno di dollari), Bacurau è un posto vitale e spensierato, una zona di confine dove tutto e il contrario di tutto sopravvivono in un equilibrio impossibile da catalogare, al di là di un mondo che vuole ricondurre tutto alla propria logica univoca, quello americano.
Lo squadrone della morte improvvisato è una non troppo velata allegoria di un imperialismo a stelle e strisce che è forse giunto al suo capolinea e ora opera per cieca reiterazione dei suoi schermi, anche quando questi non sembrano essere più dotati di senso. Guidato dal caracollante e perfido Udo Kier (tedesco ma “più americano degli altri” come il suo personaggio avrà modo di sottolineare), il commando è un’accozzaglia di poveracci ignoranti, ceneri di una classe media spazzata via dalla globalizzazione abbindolata dalle narrazioni propagandistiche e desiderosa di evadere dalla vita mediocre a cui è condannata. Non considerano nemmeno umani gli abitanti di Bacurau perché troppo diversi, non sono riconducibili ai loro bias cognitivi. Tant’è che in qualche oscuro modo gli autoctoni sembrano essere preparati ad affrontare i cacciatori, capiscono come ragionano mentre non accade l’inverso, l’invasore non comprende proprio né i suoi bersagli né, in fondo, le proprie azioni.
Tutto questo accade perché Bacurau-villaggio è al di là degli schemi, un fiorire di contraddizioni con la sua autonomia, esattamente come Bacurau-film è un mescolarsi di tecniche di caratura e retaggi distanti. L’immagine restituita dalle lenti anamorfiche anni ’70 e le transizioni a tendina o dissolvenza sembrano dare un patina d’antichità al film, come a volerlo collocare nel passato (quando invece la voce narrante dell’incipit ci dice che siamo qualche anno dopo il 2020), mentre i tagli di montaggio con le sorgenti video evocano tutt’altro tipo di ambiente. I campi lunghi utilizzati da Mendonça Filho in abbondanza provengono dai kolossal hollywoodiani, le geometrie particolari urlano “cinema novo“, la colonna sonora elettronica di rarefatti beat disturbanti che fanno capolino dalle casse durante la scena di una capoeira rituale stona di proposito. E al contempo, a fronte di un’estetica occidentale e potabile per chiunque che indulge nel giocare con i topoi del cinema di Leone o Deodato, nell’atto conclusivo del film emerge un lato mai veramente dimenticato e conservato, guarda caso, in un museo (spesso nominato ma mai inquadrato), simboleggiato anche dall’istrionico personaggio di Lunga, un po’ cangaçeiro transgender, un po’ rockstar sfigata.
Bacurau é un divertissement impegnato o una denuncia sociale commerciale, a seconda del punto di vista scelto, poiché – coerentemente con se stesso, bisogna ammetterlo – mischia l’una e l’altra cosa. Ognuna delle parti del film ha una sorta di zona autonoma, in quanto c’è sia il gusto per l’esagerazione visiva fine a se stessa (si vedano le incursioni nello slasher), sia la volontà di ritagliare delle finestre autonome che identifichino i veri obiettivi polemici del film, non tanto esterni – già chiari -, quanto interni; essendo stato concepito ancora dieci anni fa dai due registi, è improbabile che il discorso inerisca solo alla politica filo-americana di Bolsonaro, ma i cambiamenti subiti dal Brasile negli ultimi anni sono la causa di questa virata e Bacurau prova ad abbracciare l’intera questione, in particolar modo con l’iconico finale che vede il sindaco, anche lui filo-americano, corrotto, stupido e grottesco con il suo avanzato furgone-manifesto, umiliato a dorso d’asino con una punizione simbolica dal retrogusto d’esorcismo.
Bacurau dunque per sua stessa natura è un film che non sarà mai armonioso e perfetto, ha fin troppe esitazioni nell’imboccare la linea narrativa principale sfociando in una prima metà tutto sommato sfilacciata, e soprattutto intraprende due direzioni diverse sapendo di non poter arrivare in fondo a nessuna, ma nel suo bizzarro frullare tutto ciò che passa per il convento dà vita a un’opera divertente da vedere e da smontare, apprezzabile per la sua architettura complessa – riferimenti, citazioni, metafore e rimandi interni non si contano – e per lo spirito salace con cui affronta un tema scomodo e facile da banalizzare, senza contare che alla fine, una volta ricomposto dopo la prima visione, non risulta meno efficace.