Kyiv, 2017. Liliya, giovane volontaria di un battaglione militare ucraino in prima linea contro i separatisti del Donbas, grazie a uno scambio di prigionieri riesce a ritornare a casa dopo alcuni mesi di reclusione a Luhansk. Ritrovare sé stessa e una propria bussola esistenziale, tra sindrome post-traumatica, una gravidanza indesiderata e la violenza di cui è intrisa la società ucraina anche lontano dal fronte, non sarà facile…
È il momento di volare a Karlovy Vary, nella sezione collaterale Horizons dove sono stati inseriti anche altri tre notevoli film ucraini (Klondike di Maryna Er Gorbach, Reflection di Valentin Vasyanovich e Pamfir di Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk), per questa farfalla la cui (prima) visione era già stata in programma, un paio di mesi fa, nella sezione Un certain régard di Cannes 2022. Ed effettivamente, nonostante negli ultimi mesi l’Ucraina e la guerra totale che la sta martoriando dal 24 febbraio siano una presenza martellante e disturbante sugli schermi di ogni nostro dispositivo, c’era un grande bisogno, in tutta Europa, di vedere un film come questo lungometraggio di debutto di Maksym Nakonechnyi, giovane e dinamico regista kieviano con all’attivo alcuni cortometraggi sulla tematica LGBT (anche nel contesto delle forze armate e dei battaglioni ucraini).
In primo luogo, un film come questo era necessario per ricordare che il conflitto nel Donbas (miccia che ha fatto esplodere la catastrofe del 2022, o meglio casus belli per giustificare l’invasione russa su larga scala dell’Ucraina), seppur con intensità variabile e alternanza di escalation e de-escalation, non è mai cessato dal 2014, anche se nei media occidentali era pressoché scomparso già da anni. Ed è un conflitto che, al di là delle accuse del Cremlino secondo cui in questi famigerati “8 anni” l’Occidente avrebbe appunto taciuto e Kyiv perpetrato un genocidio della popolazione filorussa nella parte orientale del paese, ha provocato numerosissime vittime anche da parte ucraina e anche per mano dei separatisti appoggiati e armati da Mosca. In secondo luogo – e questo è ancora più importante e prezioso, perché costituisce davvero un tratto distintivo di Butterfly vision – Nakonechnyi sceglie programmaticamente di mostrare non solo gli orrori (retrospettivi) del fronte, ma soprattutto le ferite che lacerano la società ucraina anche a molti chilometri da esso, in un contesto solo apparentemente pacifico.
Dal 2014, una nuova e incisiva generazione di cineasti ucraini ha costantemente – e non avrebbe potuto fare altrimenti – messo al centro del proprio lavoro una riflessione critica e penetrante sulla guerra nel Donbas (a volte già definita non guerra civile, ma “guerra russo-ucraina”), tragedia contemporanea di un paese che dall’Euromajdan del 2013/2014 sta attraversando, insieme ai suoi abitanti, una lunga fase di transizione, in una realtà troppo complessa per essere imbrigliata in schemi semplicistici come vorrebbe la vulgata sbandierata dal suo ingombrante vicino russo, ma anche da molte voci occidentali. Alle conseguenze pesantissime del conflitto sono stati dedicati, per esempio, entrambi i recenti lungometraggi di Valentin Vasyanovich, Atlantis (inquietante distopia ambientata in un futuro non troppo lontano, in cui l’Ucraina è riuscita a riconquistare le sue regioni orientali, ma a prezzo di una catastrofe ambientale e umana irreparabile) e Reflection (storia di un medico che si arruola nell’esercito, viene fatto prigioniero e, dopo il rilascio, cerca di tornare alla vita e di seppellire – in senso metaforico e non – i morti che gli erano cari), oltre allo stralunato Bad Roads di Natalia Vorozhbit (regista peraltro anche presente in Butterfly Vision come attrice), che con un piglio surreale fa ben percepire la violenza che ormai permea la quotidianità dell’Ucraina orientale.
In particolare, la delicata elaborazione del trauma vissuto da chi ha combattuto in prima linea, anche e soprattutto da una prospettiva femminile, è stata narrata in documentari come Invisible battalion (progetto collettivo frutto della scrupolosa ricerca di alcune talentuose registe) o No obvious signs di Alina Gorlova. Sono infatti numerosissime le ragazze e le donne ucraine che dal 2014 hanno prestato servizio nelle forze armate o si sono unite a battaglioni di volontari, e non serve rimarcare quanto, per una donna, la prigionia sia una prospettiva particolarmente pericolosa (alcune donne soldato preferiscono addirittura farsi uccidere preventivamente dai propri commilitoni una volta accerchiate), perchè può comportare non solo terribili torture fisiche, ma anche orribili stupri. Butterfly Vision è un film di fiction che indaga la stessa problematica ma, come il drone pilotato dalla sua protagonista, allarga notevolmente il campo visivo.
È infatti chiaro che il centro di tutto è Liliya, nome di battaglia “Farfalla” (l’intensa Rita Burkovska, spigolosa e dolce, femminile e mascolina insieme), con la sua riabilitazione fisica e psicologica in seguito a mesi di prigionia che affiorano solo in rapidi e confusi flashback ma emergono, grazie alla maestria del regista e del direttore della fotografia che seguono i movimenti della protagonista, da sottili dettagli impressi nel corpo e nella mente di quest’ultima: l’aria disinvolta e scanzonata di Liliya dopo la liberazione tradisce comunque subito le profonde cicatrici che sono andate a coprirle i fantasiosi tatuaggi su petto e schiena, trasformandola per sempre in un’altra persona. Elemento altrettanto importante della trama è la scelta etica che riguarda la gravidanza dovuta alle violenze subite, e che sarà uno degli stimoli che spingeranno Liliya a ritrovare, facendo affidamento solo su sé stessa o quasi, e attraverso ricognizioni interiori simili a quelle svolte con il drone al fronte, il filo della sua esistenza spezzata.
Ma, a parte questo, alcuni importanti elementi di contorno rendono particolarmente interessante questa “visione” dell’Ucraina negli anni immediatamente precedenti l’attacco russo su larga scala. Infatti il marito di Liliya, Anton, non è solo un ex-militante nello stesso battaglione di volontari – e, a proposito, un dettaglio non casuale e anch’esso sintomatico dell’Ucraina di oggi è che Anton, originariamente, è di madrelingua russa, ma ha iniziato ad utilizzare unicamente l’ucraino in maniera programmatica, migliorandolo grazie alla lettura di classici ucraini regalatiglili da Liliya, come emerge in uno dei dialoghi tra i due. Anton fa anche parte di un gruppo di estremisti di destra che organizza, all’interno di una sorta di “ronda”, delle spedizioni punitive tra i quartieri della città e nei campi Rom. Ben lungi dal voler fare il verso ai cliché della propaganda russa, con i suoi proclami sulla necessità di “denazificare” l’Ucraina, è indubbia, come d’altronde in molti altri paesi europei, la presenza di movimenti radicali di matrice nazionalista, che il governo e i tribunali di Kyiv (come vediamo anche nel film) negli ultimi anni hanno cercato di isolare e tenere sotto controllo, ma non sempre con successo. Le mazze da baseball e i fucili che il marito di Liliya tiene in casa, però, sono solo la più evidente punta dell’iceberg: le dolorose zone d’ombra della società ucraina affiorano anche, in modo meno diretto, in scene banali come quella dell’autobus, dove un conducente è infastidito dal dover far salire gratis così tanti veterani del Donbas, e suscita una pioggia di commenti contrastanti da parte dei passeggeri a bordo. La stessa pioggia di commenti contrastanti (e non si tratta solo di troll) che vediamo sotto il video della liberazione di Liliya e di altri combattenti. La guerra, ben prima di diventare totale, aveva già polarizzato e avvelenato una parte della popolazione ucraina e costretto l’altra parte ad esserne consapevole e a cercare faticosamente delle alternative.
A cercare faticosamente un’alternativa è anche la protagonista del film, a costo di entrare in aperto conflitto con il marito e con gli ex commilitoni. Liliya non soccombe all’odio cieco di chi le sta intorno. Ma, come tanti veterani di guerra, alla fine non può che riarruolarsi (stavolta a contratto, nelle forze armate regolari), perché è ben difficile, per chi ha vissuto gli orrori della guerra, reintegrarsi in un contesto di pace. A maggior ragione se la guerra continua ad essere combattuta a pochi chilometri da casa. E, a distanza di pochi anni, arriva alle porte di casa: in questo senso l’incubo in cui Liliya, sempre dalla prospettiva del drone a lei congeniale, scorge una piazza di Kyiv distrutta dalle bombe, che nelle intenzioni del regista doveva essere solo un tipico sintomo della sindrome post-traumatica degli ex-soldati, nel 2022 si è purtroppo rivelato un’amara (pre)visione del futuro a breve termine.