Due fratelli e le rispettive compagne si muovono dalla Polonia per qualche giorno di ferie sulle coste dell’isola danese di Bornholm, dove vorrebbero rilassarsi, godersi i figli e il mare, ma dove invece un imbarazzante e inaspettato incidente farà scoppiare i conflitti familiari, tenuti a bada solo dalla routine e dalla confort zone casalinga che evita di porre troppi interrogativi. Il viaggio, la vacanza, l’incontro con posti e persone nuove del resto possono essere occasione di crescita, ma anche di emersione di uno stato di crisi sotterranea.
La regista polacca Anna Kazejak è al suo sesto lungometraggio, e questo Fucking Bornholm ben giustifica la sua partecipazione nel concorso principale grazie ad un mix di cinismo, anti-romanticismo e farsesco dramma familiare che sfrutta una certa unità di luogo e il topos della vacanza per illustrare con la giusta cattiveria le superfici di scontro sopite o nascoste, ma comunque spesso presenti negli ambiti famigliari.
La Kazejak dispone come su una scacchiera le pedine di un ipotetico fine settimana di relax, con spiaggia, ombrelloni, chiacchiere familiari e riposo, che però si incrina grazie ad un paio di ottime trovate di sceneggiatura per trasformarsi in un weekend se non proprio di paura, per lo meno di stress e di totale distruzione psicologica.
Il colpevole? Il sesso. Quello non proprio soddisfacente di Maja, che cercherà soddisfazione in un gentiluomo del posto, quello “abusivo” e rubato da suo marito Hubert, che viene scoperto a guardare porno dai figli, e in fondo lo shock, psicologico più che sessuale, dei bambini che vedono non solo per la prima volta entrare nella loro vita le problematiche create dai piaceri della carne, ma che (cosa ancora più grave) si accorgono di come faglie di separazione e rottura ormai insanabili siano già pronte ad esplodere nei rapporti degli adulti.
La regista imbastisce con sapienza un insieme di forze vettoriali che intrecciano i rapporti fra i vari personaggi, ognuno dei quali ha in fondo dei conti aperti con gli altri. L’illusione che tutto vada bene, e che le abitudini borghesi della vacanza di gruppo possano tenere a bada le insoddisfazioni reciproche si scioglie facilmente al primo apparire dell’imbarazzo, della vergogna, legati non solo all’incidente sessuale di cui sopra, ma anche alla presa di coscienza che il tran tran ha preso il sopravvento sul coraggio esistenziale e sulla voglia di cambiare.
L’atmosfera in cui si muovono i personaggi ha un che di polanskiano, come se la piazzola per il camper dei vacanziaeri potesse in parte ricordare la barca de Il coltello nell’acqua, dove ugualmente segreti, tensioni e ripicche esplodevano a partire da una situazione di diporto potenzialmente pacifica, in cui erano però concentrate troppe energie e contrasti latenti per una superficie così limitata.
Verso il finale il film cede un po’ a certi stereotipi, come quando Maja attraversa un po’ troppo velocemente tutte le fasi dell’emancipazione, passando da madre premurosa piuttosto ossessiva ad avventuriera sessuale in pochissimo tempo, e aggredendo il marito in quanto incapace di cambiare e riconoscere i propri errori.
Ma ad ogni modo un buon film sull’impossibilità della pace familiare, sulla necessità di addivenire a compromessi per poter salvare i rapporti e sul rischio di rovinare tutto in nome di una mal compresa libertà assoluta.