Dopo l’ottimo riscontro ottenuto da nebel (2014) alla Berlinale e al Taiwan International Documentary Film Festival, Nicole Vögele torna sul luogo del delitto con Closing Time, avvalendosi di una scrittura e di uno sguardo che eludono le barriere del cinema del reale arrivando a mettere in discussione le potenzialità euristiche dello stesso.
Nel XXI secolo, la «città che non dorme» è Taipei, il luogo che più si avvicina all’utopia postindustriale di una società in funzione 24 ore su 24, 7 giorni su 7. In questo formicaio umano, la piccola tavola calda di Li-Jiao Lin e del marito Chung-Shu Kuo è come un faro nell’oscurità: ai loro tavoli si succedono tatuatori, coppie, tassisti, commercianti, accomunati dalla fame che prende il posto del sonno. Ma cosa succede se il guardiano del faro si allontana nella notte?
La trasferta taiwanese in occasione del festival è stata per Vögele una folgorazione: puntando l’occhio della cinepresa al cuore della capitale della Cina Repubblicana, avrebbe forse potuto catturare il flusso ininterrotto delle attività dei suoi abitanti, per il quale notte e giorno sono ormai omologati. Ne consegue che Closing Time non può avere una struttura lineare: è un circolo ripetitivo e a volte straniante, in cui il pivotale Piccoli Piatti di Riso – questo il nome del locale di Li-Jiao e compagno – è un porto cui fare ritorno nel momento in cui gli stimoli di Taipei rischiano di far naufragare lo spettatore. Stimoli che per la natura del mezzo sono in primo luogo visivi, ma il comparto sonoro di Closing Time, con il sound design a cura di Jonathan Schorr, lo rende un’esperienza totalizzante e onnisensoriale, con suggestioni riprese dalla Tokyo di Wenders in Tokyo Ga (1985).
Ancora impensabile per noi che viviamo nel vecchio mondo, in questa megalopoli si lavora anche quando il sole è calato: i judoka si allenano nel dojo, i motorini sfrecciano, i ristoratori si recano al mercato per accaparrarsi i prodotti freschi. Oltre a questi spaccati vita notturna, le sequenze – tutte rigorosamente girate a camera fissa – riportano le conversazioni degli avventori, a darci un’ulteriore prova del fatto che per loro si tratta di semplice routine. In questo parlare del più e del meno si intravvede, dissimulata, una sceneggiatura estremamente realistica che lascia il sospetto – per ora né confermato né smentito dalla regista – di una scrittura degli stessi dialoghi.
Questa ambiguità porta chi guarda a reinterpretare costantemente il profilmico varcando in un verso e nell’altro la soglia tra realtà e finzione. Closing Time è un documentario? Una domanda cui è difficile dare risposta e che costringe a riconsiderare la definizione stessa. Non vuole dare riferimenti eppure racconta delle storie che si intrecciano in un punto per poi perdersi nelle strade illuminate a giorno. È descrittivo ma subordina la descrizione alla propria vocazione estetica, senza arrischiarsi a prescrivere come resistere al ritmo disumanizzante della città.
Abbassiamo la guardia e rimaniamo senza difese allorché la natura inghiotte Chung-Shu e noi con lui. La stessa natura, vista nei primi establishing shot, ci sembra qualcosa di alieno dopo l’impatto con Taipei, persino di inadatto alla vita umana. La nostra società, ci ricorda così Vögele, non è che un sistema a nostro uso e consumo: le forze che regolano l’universo ne sono al di fuori, e non possiamo controllarle.