Dumont, qui a Locarno per ritirare il Pardo d’Onore della 71esima edizione, non solo viene onorato con una retrospettiva che vede nuove proiezioni per La vie de JesusL’humanité, e Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, ma partecipa in prima persona al Prix du Public con Coincoin et les z’inhumains, seguito del precedente e già trattato P’tit Quinquin, con cui condivide modalità e formato, trattandosi sempre di una finta miniserie – di televisivo c’è ben poco – suddivisa in quattro episodi di circa cinquanta minuti, presentata qui in Svizzera per coppie di scaglioni, e non in unico blocco come invece accaduto a Cannes.

P’tit Quinquin non è più tanto p’tit e non si chiama più nemmeno Quinquin, il suo nome è Coincoin ora, possiede un apparecchio acustico, è cresciuto e lavora con suo padre a tempo pieno, mentre la fidanzatina Eve lo ha lasciato per Corinne, una camionista omosessuale, ma ha sempre il suo naso storto, la compagnia del fido amico le Gros e la consueta capacità di mettersi nei guai. Coincoin è il simbolo del cinema che non progredisce, Coincoin come nome è una metafora chiara del fatto che il cinema di Dumont aborre l’evoluzione, il progresso. In esso casomai v’è la variazione, e ogni variazione è un ricominciare; questa è un’altra storia, con i medesimi personaggi (con poche ma fondamentali aggiunte) che però inizia da capo; non c’è spazio per parlare di serializzazione, quindi. Coincoin et les z’inhumains è quello che P’tit Quinquin era per La vie de Jesus, cioè una sorta di rielaborazione che ne mette in luce altre caratteristiche, ribaltandone il linguaggio e scoprendone così un altro. Un cambio di regole simbolico con funzione programmatica.

Ciò che rende immediatamente così complesso Coincoin et les z’inhumains è la dimostrazione palese di come positivo e negativo, commedia e tragedia, siano sì, ovviamente, l’opposto l’uno/a dell’altro/a, ma non siano perciò speculari, logicamente parlando. Se la tragedia si rovescia (o viceversa), si ottiene la commedia (o la tragedia) ma ripetere questo procedimento con il “rovesciato” non riporta alla condizione originaria: negare la tragedia non significa fare una commedia. Questo non ha nulla a che fare con la retorica pretestuosa delle sfumature di grigio (buone solo per mettere le mani nelle tasche delle ragazzine), ma con le infinite sfaccettature che un’arte come il cinema può avere: cioè negare -1 dà come esito +1.

Infatti, se in P’tit Quinquin Dumont si divertiva a capovolgere i suoi stilemi per trascendere il suo cinema, qui esegue sostanzialmente lo stesso procedimento all’inverso, ottenendo come esito finale non un tornare indietro, ma la scoperta di un vero e proprio nuovo percorso. Tre anni dopo la città-mondo dove scorrazzavano Quinquin e amici non ha più nulla a che fare con la catena di omicidi della miniserie antecedente, mancano il veterinario e tutte le altre figure fondamentali; perfino Dany può non essere più considerato l’assassino che dava un senso-non-senso all’opera, rimane in qualità di sostrato narrativo, con diverso ruolo inoltre. Tre anni dopo non ci sono più cadaveri dentro mucche a loro volta all’interno di bunker sotto le colline, ma cadono dal cielo strane sostanze nere e viscose, dei goccioloni appiccicosi da cui germogliano strane luci che duplicano alcuni personaggi per asservirli a uno scopo misterioso, oltre che fungere da satira sulla retorica destrorsa dell’invasione.

Chi ha visto P’tit Quinquin o ha capito come funziona il cinema dumontiano avrà già fatto sua la consapevolezza che non c’è una spiegazione logica apparente, tutto sta nel processo di rovesciamento, non in quello che ne viene fuori. Ma se il semi-capolavoro del 2014 si articolava come un giallo classico nella disamina delle indagini, in Coincoin et les z’inhumains succede l’esatto contrario, ovverosia le investigazioni del dinamico duo formato da un sempre più tourettato Van der Weyden (per l’occasione accompagnato da una nuova ratio omofoba e razzista) e lo spericolato Carpentier, come si aspetterebbe lo spettatore, precedono a caso, ma sottotraccia possiedono la più classica e a banale, anche se parodiata, delle dinamiche di un sequel. Lo stesso vale per l’accoppiata in sé, con le stunt di Carpentier invece acquisiscono senso – laddove in P’tit Quinquin erano la negazione pura della logica – e hanno uno scopo. Si sta dando per scontato quanto introiettato con P’tit Quinquin, dunque, ed esattamente come in quell’opera, Dumont gioca con  il pubblico ribaltando ulteriormente i nuovi stilemi linguistici creati ad hoc proprio quando lo spettatore, stralunato e confuso, credeva di averli compresi e vi si stava adattando. Qui svolge la medesima operazione riportando il medesimo spettatore, già nel mondo trasognato e folle di cui sopra, con piedi per terra con dei passi decisi, capovolgendo nuovamente il linguaggio di Coincoin et les z’inhumains in quello del cinema “normale”, “tradizionale” che lo questi aveva quindi dimenticato e non considerava più.

Se come al solito si parte da una disamina il cui soggetto è considerato da Dumont  di livello inferiore rispetto alle sue solite trattazioni (lo sta facendo un po’ con tutto il nuovo filone tragicomico), perché la banda gira intorno a le Bloc, una formazione politica che scimmiotta il Front e Van der Weyden è convinto che i migranti siano un segno dell’Apocalisse imminente (politica < metafisica), presto si riconduce tutto a una quadratura del cerchio in ambito puramente cinematografico, al di là della rozza logica, ovvero il senso del film sta nel film stesso e non nella sua ricostruzione astraente, di nuovo il senso-non-senso va trovato ancora una volta nel finale che riprende testualmente il prequel. L’indagine, folle, insensata, coadiuvata e non più ostacolata dai ragazzi porta a un reddere rationem proprio in P’tit Quinquin, ovviamente solo per finta, fino a “colpo di scena finale” che offre un di più rispetto all’opera precedente. Abbiamo lasciato completamente la narrativa per approdare a una dimensione in cui la comicità posticcia con i suoi gabbiani obbrobriosamente finti ed effetti speciali trash, fa da contraltare al venire incontro al pubblico con una messa in scena che non ha più bisogno di scassinare i tempi scenici, anzi, si diverte a deludere le aspettative che viaggiavano lungo questo tracciante.

Il finale è ancora più anarchico di quanto non ci potesse aspettare, con Dumont che sfrutta gli stilemi narratologici della TV per riportare in vita “la ragazza che cantava ai porci” e deflagrare tutto nella negazione di tutto quanto avvenuto sinora, con una parata felliniana capace di riproporre la totalità di Coincoin et les z’inhumains nella sua natura più intima, quella di un’opera il cui procedere di fatto si risolve nel pretesto, un’opera per se stessa che s’avvera solo nel momento in cui si compie il suo processo. L’extradiegetico della struttura reale si confonde con quella narrativa e di finzione, cioè si sovrappongono, proprio come in Jeannette, due dimensioni, questa volta in un cerchio – una conversazione? – ancora più ampio che parte dallo spettatore come “il punto più distante” e si chiude nel tratto in cui il film tutto si svolge a partire dalla sua autoreferenzialità, congiungendo i due poli nella conclusione.

I migranti, da pretesto politico e simbolismo secondario, diventano, nelle poche apparizioni sceniche loro concesse, l’alter ego dello spettatore: Van der Weyden sostiene che il fatto che “i migranti migrino migrando” sia la cartina tornasole dell’incombere dell’Apocalisse, e questa non è null’altro se non la fine del film stesso, capace di chiudere il discorso ma al contempo di definirlo – tanto che i personaggi a tratti sembrano quasi tergiversare. Molti di loro girano con della maschere o dei costumi, alla stregua di una grande festa in maschera a cui partecipano tutti, personaggi/film e migranti/spettatori (che poi fa anche da allegoria critica verso quel cinema che non si fa conversazione con il pubblico), trascendendo ogni tipo di logica e meccanismi. Virtualmente è sempre lo spettatore quindi che dà il via all’atto conclusivo, in un ultima gag politicamente scorretta (ma questo è quello fa il cinema, moltiplicare i significati delle immagini), intonando la melodia finale, la musica della parata, della finzione filmica.

Coincoin et les z’inhumains è, giocoforza, un prodotto atipico e folle, che comporta necessariamente uno sforzo da parte dello spettatore nel momento in cui si va a posizionare in un loculo di una nicchia finora ignorata. Non è ragionevole neppure dare per scontato che l’epopea di Quinquin/Coincoin finisca qui, bisognerebbe piuttosto guardare a questa serie di lavori come si guarda alle Elegie di Sokurov (solo collegate fra loro), cioè produzioni parallele al “lavoro principale” dotate di una loro identità che ne fa progetti singolari a latereI, però. D’altro canto è chiaro che s’è raggiunta una climax di questa “fase della commedia”, procedere oltre questo livello sarà difficile, per complessità della riflessione sul tragicomico: certo, non si esclude una terza miniserie però nel mentre aleggia la consapevolezza che il prossimo film programmato di Dumont, un sequel di Jeannette con il canonico processo, sarà un vero punto di rottura, come lo sono stati Twentynine palms o Camille Claudel 1915che aprirà a una terza fase completamente differente, che comunque noi attendiamo carichi ed euforici.