Dune è stato presentato nei primi giorni della Mostra del Cinema di Venezia 2021, ma la brillante idea del direttorissimo Barbera di sbloccare le limitazioni sulla vendita degli accrediti, salvo poi fingere di aver scoperto solo la sera del 31 agosto che le sale non potevano essere riempite oltre il 50% della capienza, ha causato qualche problemino in termini logistici a parecchie persone. E scaricare la colpa su Boxol nemmeno fosse Skynet non si è rivelata la più intelligente delle mosse, secondo noi, ma tant’è. L’atteso kolossal fantascientifico è stato preso d’assalto dal pubblico e solo i più fortunati e/o lesti tra gli accreditati stampa sono riusciti a vederlo in anteprima. Per tutti gli altri si rende quindi obbligatorio fare come i comuni mortali: recarsi in quelle vetuste strutture chiamate cinematografi e pagare il biglietto per assistere allo spettacolo. Giacché è andata in questa maniera (purtroppo per noi), tanto vale approfittare del fatto che non c’è più la necessità di pubblicare tempestivamente un articolo e ragionarci attorno con un po’ più di calma.
Non dimentichiamo inoltre che si tratta di un film che ha fama di essere maledetto: in sostanza Dune sta al mondo reale come Machiavelli sta a Boris. Per maggiori informazioni citofonare a due maestri del cinema contemporaneo come come David Lynch e Alejandro Jodorowsky. Il primo si dovette confrontare con enormi difficoltà produttive e girò un film già problematico e scarso di suo che poi fu massacrato in fase di montaggio perché ritenuto troppo lungo per sbancare il box office; il secondo non riuscì nemmeno a portare a termine il progetto invece, ma il documentario sul fallimento è a ogni modo più interessante dell’opera terza del geniaccio di Missoula. Denis Villenueve ha avuto maggiore successo.
Il plot ormai lo conoscono tutti, ed è di fatto il terreno di cultura dal quale germina Star wars, cioè quello di una grande epopea fantascientifica nella forma e d’avventura nella sostanza. Agli albori dell’undicesimo millennio, in un cosmo organizzato come il medioevo feudale, l’imperatore decide di porre fine alle presunte mire al trono di Casa Atreides (uno dei maggiori potentati pseudonobili), organizzando una trappola mascherata da regalo: la grande casata riceve in dono l’usufrutto di Arrakis, pianetucolo sabbioso ma traboccante della più preziosa risorsa naturale di tutto lo spazio: la Spezia (Melange in originale), elemento che funge da combustile indispensabile per i viaggi interstellari ed è dotato di oscure proprietà psicoattive. Qui, lontano da occhi indiscreti, viene tesa un’imboscata a opera delle forze congiunte delle armate imperiali e di Casa Harkonnen, rivali degli Atreides e precedenti sfruttatori del pianeta, in modo da simulare un’aggressione per la supremazia economica e politica. Al conseguente massacro sopravvivono solo il rampollo Paul Atreides – Timothée Chalamet – e la madre Jessica, che tra le altre cose è membro dell’ordine sacerdotale Bene Gesserit, una specie di loggia pidduista che tira le fila della politica imperiale e segretamente mira alla creazione di una sorta di oltreuomo (ovviamente Paul) attraverso un contorto piano eugenetico.
Villenueve si confronta quindi con un altro film dalle pesantissime eredità dopo il sequel di Blade Runner, in una fase della sua carriera dedicata allo sci-fi (iniziata con Arrival nel 2016), e ancora una volta si misura con un progetto grande, nel senso letterale del termine. Un kolossal che fosse in grado di acquisire la sua forma definitiva grazie allo schermo cinematografico, che trasmettesse l’idea di grandeur, di conflitto epico nell’enormità spaziale e di fascino per l’ignoto e la sua vastità. In questo senso Dune rimane un high fantasy con il pigiama fantascientifico: unisce infatti il classico aspetto formativo (l’adolescente che diventa uomo), il monomito campbelliano (il viaggio dell’eroe), gli aiuti magici (trasformati in neuroscienze fantacognitive), l’importanza dello scontro fisico (nell’anno 10191 si fanno ancora le guerre menandosi con gli spadoni!), i temi della profezia e dell’elezione (Maud’dib/Kwisatz Haderach), o dell’incontro con un mondo altro (quello dei Fremen), e via andare con tutti i cliché della narrativa fantastica.
L’immaginario è quello dell’avventura selvaggia declinata grazie alle nuove potenzialità audiovisive che il cinema di oggi – e non degli anni ’80 – permette, dalla diarchia dei colori (ogni spazio/pianeta ha la sua propria chiave cromatica) alla tecnologia Atmos, dall’abuso della camera–drone per le riprese aeree alla ricerca ossessiva della magniloquenza del paesaggio, forte di un volume spazio-temporale che inghiotte e rimpicciolisce i personaggi. Dune possiede dunque la peculiarità di non configurarsi come un marchettone classico pensato per apparire quanto più neutro possibile e piacere a quante più persone possibili, ma di farsi riconoscere come inscritto in una poetica precisa e portatore di una serie specifica di scelte. Al netto di qualche concessione intesa appositamente per ingrassare l’hype dei millennials/genZs, come possono essere il cast che pare la risposta hollywoodiana all’all-star game della NBA (con tanto di “feticci” come Zendaya e Chalamet) o qualche strizzata d’occhio ai film della Marvel, Villenueve imposta quella che vuole essere il primo adattamento a imporsi a livello generazionale e rendere giustizia alla serie di romanzi con un’estetica precisa.
La scelta è quella di abbandonare l’idea di futurismo barocca e pastellata della trasposizione lynchana per abbracciare una linea dai contorni più morbidi, estremamente semplificata e sobria nel design di ogni elemento visivo. Le entità architettoniche, tecnologiche, biologiche sono misurate, pensate e realizzate secondo il criterio di un funzionalismo immediato: non c’è la ricerca della complessità o del senso della meraviglia; il tono è, trasversalmente rispetto alle ambientazioni differenti, costantemente castigato. Quel che viene tolto al lato creativo viene restituito al senso di immensità sovraumana, evidenziando il contrasto tra la finitezza dei protagonisti (un subisso, metà dei quali muore nella prima metà di film), e la fissità degli ambienti in cui si muovono, vasti e grevi, impossibili da misurare o conoscere nella loro totalità nonostante i progressi tecnologici. Paradigma di questo indirizzo sono i famigerati vermi delle sabbie, così metamericamente semplici come organismi eppure così poderosi grazie alla loro dimensionalità completamente fuori scala. Un’autentica forza della natura con la quale gli esseri umani et similia devono venire giocoforza a patti.
E sullo stesso piano si configura la colonna sonora approntata dal maestro Hans Zimmer. La soundtrack è fatta di continue climax ascendenti dai motivi rigidi e ripetuti salendo di tonalità e volume, la sonorità è forte e organizzata in blocchi singoli senza mezze misure, spesso in alternanza con il visivo. Quando il montaggio rallenta l’immagine, ecco il sonoro prendere il sopravvento dopo un momento di protratto silenzio artato; viceversa, quando Villenueve presenta un nuovo contesto geografico, la decisione è quella di abbandonare totalmente anche le tracce ambient, come a far risuonare il senso di vuoto che emana dalla sterminatezza di alcuni luoghi. Dune non è mai frenetico, tutto sembra andare sempre piano: i dialoghi dei personaggi (sempre ragionativi) in primis, ma anche le varie componenti più o meno tecniche o visive di cui abbiamo parlato non si danno mai tutte assieme, bensì una alla volta, volendo farsi cogliere o semplificandosi allo sguardo dello spettatore. La postura è anche furbescamente accessibile per motivi di cassetta, e talvolta – specie nella seconda parte – artificiosamente lenta, incappando in una malagestione del ritmo: la fuga nel deserto, l’incontro con Stilgar (Bardem), il “tradimento” passando dalla parte dei Fremen e il duello rituale arrivano l’uno dopo l’altro senza consequenzialità diretta per pura cogenza narrativa, ad esempio.
Le prime due ore invece non presentano mancanze di questo o di altro tipo. L’autore canadese si prende tutto il tempo che gli serve per presentare e approfondire personaggi il cui screen-time è comunque limitato, in modo da usarli per introdurci a un mondo che è invece incredibilmente intricato o per evidenziare il ruolo che hanno nella trasformazione caratteriale presente e futura dei personaggi più importanti (gli Harkonnen per fare infodump sul world building ad esempio, oppure la presenza di Duncan e il padre Leto nella vita di Paul). È anche vero che Villenueve asciuga non poco l’ingarbugliato intreccio astro-socio-politico partorito dall’immaginazione di Frank Herbert, ma considerando in primo luogo che non si tratta di un regista noto per la sua capacità di scrittura (tutti i suoi lavori importanti sono scritti da terzi) e che inoltre gli sono stati affiancati due “tecnici” più che altro (basta scorrere i curricula di Roth e Spaiths), il risultato è più che soddisfacente. L’idea era quella di tenere in ordine lo sviluppo della trama e portare punti a casa attraverso la mise–en–scène.
In maniera limpida Dune punta sulla potenza visiva, sull’impetuosità del flusso di immagini sognanti che riesce a produrre; l’assenza di qualsivoglia avvicendamento di situazioni narrative o colpi di scena non pesa troppo sulle due ore e quaranta minuti di durata, sostanzialmente perché l’intreccio, pur ambientato nel futuro lontanissimo, riflette più che altro l’impressione di essere ambientato in un passato ancor più lontano, pre-storico. Inconsciamente Dune, suscita la sensazione di assistere al dispiegamento di un grande mito fondativo, alla creazione di un mondo, come l’incipit di un fondamentale racconto sacro o appunto mitologico. Giunge per certi versi a una profondità superiore a quella dell’epica: in alcuni meccanismi, per quanto talvolta aridi come Arrakis, si intravede il respiro di un’autentica cosmogenesi. Questo è il fascino della sfida più difficile di Denis Villenueve (peraltro superata a pieni voti), ed è inoltre il motivo che ci spinge a essere incuriositi o che alza le aspettative nei confronti del sequel già in fase di produzione – e che ci farà sbraitare contro Barbera se eventualmente dovesse essere presentato di nuovo a Venezia. Dune è quel blockbuster che rispetta tutti i canoni del genere e che certo non rivoluziona le modalità del cinema di consumo, ma che prima di ogni altra cosa insegue una visione determinata, quella di ribellione contro quel tipo di cinema che schiaccia il luogo per eccellenza dell’inventiva e della fantasia su di un immaginario livellato, conformista e depresso, e che di pari passo riafferma, nel momento in cui i cinema ritornano a essere un elemento della quotidianità, la centralità della sala cinematografica nell’esperienza della visione di un film. La forza di Dune, insomma, sta tutta nell’essere grande: si vedono cose (proprio cose perché a volte non si capisce bene cosa siano) titaniche e mastodontiche, mondi interi che cambiano; e parallelamente, assieme alle tematiche proprie delle narrazioni fantastiche più che fantascientifiche, come il destino del singolo che si mescola alle ere che tramontano e sorgono, tale forza riposa nell’ampio, ampissimo respiro che Villenueve è riuscito a cogliere.
Titolo originale: Dune
Genere/i: azione, avventura, drammatico, fantascienza
Paese, anno, durata: USA, 2021, 155′
Regia: Denis Villenueve
Sceneggiatura: Denis Villenueve, Jon Spaihts, Eric Roth
Fotografia: Greig Fraser
Montaggio: Joe Walker
Musiche: Hans Zimmer
Cast: Javier Bardem, Dave Bautista, Josh Brolin, Timothée Chalamet, Chang Chen, Sharon Duncan-Brewster, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Jason Momoa, Charlotte Rampling, Stellan Skarsgård, Zendaya
Produzione: Legendary pictures, Warner Bros.
Distribuzione: Warner Bros.