Nella suggestiva cornice del Teatro alle Tese dell’Arsenale, dopo la proiezione della versione restaurata di Bu San (Goodbye Dragon Inn) – presentato in Concorso a Venezia nel 2003, dove buona parte della critica gli riservò una gelida accoglienza – a cura dell’archivio CINEMATEK di Bruxelles, il regista Tsai Ming-liang si è intrattenuto in un monologo circa le proprie memorie legate al cinema e la sua maturazione estetica.

Quello che vi proponiamo di seguito è un resoconto quanto più fedele della live performance, basato sulla traduzione in loco a cura dell’interprete ufficiale.

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«Non so se l’avete notato, ma a inizio proiezione sono entrate delle persone che credevano di visitare un padiglione della Biennale Arte: appena si sono rese conto che si trattava di un film, se ne sono andate. È un fenomeno che non mi spiego: i visitatori della Biennale venuti per ammirare arte vedono un film e indietreggiano? A questo punto, possiamo ancora dire che il cinema è un’arte?

Per quanto mi riguarda, ho iniziato a guardare film da quando avevo tre anni. Tempo fa un giornalista televisivo di Shangai mi chiese: «Qual è il primo ricordo che conserva della Sua infanzia?». Risposi immediatamente che era l’immagine di un film chiamato Chasing Fish, girato a Shangai nel 1960. È la storia d’amore tra un uomo e lo spirito di un pesce che si incarna in una donna, e l’immagine di cui vi parlo è l’istante in cui la donna-pesce emerge dall’acqua. Proprio perché era a colori e attingeva al repertorio delle leggende cinesi che tanto piacciono ai bambini, si è impresso in maniera indelebile nella mia mente, ma al momento dell’intervista non ricordavo di cosa parlasse. In seguito sono andato a rivederlo e ho scoperto che si trattava di un grande classico.

In famiglia eravamo tanti e quando ero piccolo fui affidato ai nonni paterni. Erano gli anni Sessanta, un’era completamente diversa da quella odierna: certo la gente si metteva d’impegno e lavorava duro, ma il ritmo era molto più lento nella piccola città della Malesia dove vivevo. I miei nonni erano dei grandissimi appassionati di cinema e in città c’erano ben dieci teatri che ne proiettavano in continuazione, cambiando programmazione anche ogni due giorni. Avevano una bancarella di spaghetti e mi facevano andare al cinema due volte al giorno: prima andavo allo spettacolo delle sette con mia nonna e poi tornavo col nonno a quello delle nove per vedere lo stesso film. Il nostro cinema era l’Odeon, dove proiettavano i film di arti marziali di Hong Kong, i wuxia. Ne producevano uno dietro l’altro, erano molto commerciali e rispetto a quelli di oggi non avevano dei veri combattimenti: gli interpreti restavano semplicemente in piedi, allargavano le braccia e dalle loro mani si sprigionava una luce bianca – disegnata sulla pellicola – da cui poi uscivano le armi. Vi recitavano un sacco di star di Hong Kong e Taiwan e piacevano molto anche a mio nonno, che era amante dei western. Dal primo al quarto anno delle elementari andai avanti così, con due film al giorno, senza mai fare i compiti: tornato a casa mi mettevo a piangere per la stanchezza e i nonni li facevano per me, ma quando poi nella classifica della mia classe risultai penultimo mio padre mi tolse ai miei nonni riprendendomi con sé.

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Il disegno, a opera dello stesso Tsai, ritrae sulla sinistra un “palazzo a sette piani”, a destra le sue eroine del wuxia

Questo disegno ritrae un tipico “palazzo a sette piani”: negli anni Cinquanta vennero costruiti un po’ dappertutto nel Sud-Est asiatico per ospitare le varie comunità cinesi. I bambini adoravano il prato che c’era davanti: c’erano anche piccoli corsi d’acqua e alberi da frutto, e ci giocavamo tutti insieme visto che non avevamo TV o computer con cui divertirci in casa. Questo mi riporta alla mente un altro film, Come drink with me [1996, n.d.r.] di King Hu. Avevo 9 anni e mi ero infatuato della guerriera protagonista, e proprio su quel prato, utilizzando i bastoncini che usava il nonno per preparare gli spaghetti, mi misi a imitare le sue mosse letali. La cosa particolare dei wuxia è che ne puoi guardare mille senza stancarti, finché ti innamori di uno senza particolare motivo. Successivamente a 11 anni vidi il secondo film di King Hu, Dragon Inn [1967], che cambiò la mia concezione di wuxia: non erano più eroi volanti, ma esseri umani che mangiavano, dormivano, dovevano escogitare stratagemmi per nascondere le armi e così via. Insomma, erano reali. E in seguito mi accorsi che questo era il risultato della maturazione di un vero e proprio auteur.

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Frame da “Bu San” (2003)

Bu San è quindi un film che ha a che fare con la memoria. Per girare stavo cercando la location appropriata: avevo bisogno di un vecchio cinema e a Taiwan trovai questo Teatro Fu Ho, che scelsi per la premiere di Che ora è laggiù? [2001]. Nonostante la pioggia torrenziale quella sera vennero mille persone e l’indomani il gestore mi contattò per avviare una collaborazione, ma non ero affatto interessato a fare l’esercente. Al mio rifiuto, egli mi rispose che in tal caso la settimana successiva sarebbe stato costretto a chiudere, il che mi fece capire che le sale della mia infanzia stavano scomparendo. Decisi allora di affittare il Fu Ho per un anno e girarvi Bu San. Una decisione impulsiva, ma prima dei 40 anni non avevo realizzato quanto i cinema fossero cambiati e quanta nostalgia ne avessi: iniziai a sognare l’Odeon dei miei ricordi, e l’ultimo mese di affitto iniziammo le riprese. Ogni giorno giravamo quattro scene preparando con cura scenografia e fotografia, il che segnò una grande svolta nel mio modo di fare cinema.

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Disegno ritraente Tsai bambino e suo nonno, basato interamente sui ricordi del regista. Del nonno infatti pare non siano rimaste fotografie.

Pensateci: oggi è normale ricordarsi i film visti ma non il cinema dove ciò è avvenuto. Per quelli della mia generazione invece era uno spazio fondamentale, dove trascorrevi gran parte della tua vita, divisa tra casa e sala. E i film erano altrettanto importanti. Negli anni Venti molti cinesi – come mio nonno e mio padre – lasciarono la Cina per sfuggire alla povertà emigrando nel Sud-Est asiatico: queste pellicole rappresentavano per loro un modo di provare nostalgia e allo stesso tempo consolarsi della lontananza. Un’altra forma d’arte che dava consolazione a queste comunità trapiantate all’estero era la musica, di Hong Kong, Shangai, Taiwan: l’idolo di mio padre era una star degli anni Trenta, Zhou Xuan, che recitava nel film Angeli della strada [1937]. Durante le vacanze estive tornavo sempre a casa da mio padre e ricordo che lui, quando partiva questa canzone, interrompeva il lavoro – era operaio in una fabbrica di spaghetti –, apriva il frigo e si gustava un pezzetto di burro col caffè.

Qualche giorno fa ho pubblicato su Facebook che sarei tornato a Venezia e che in tale occasione avrei voluto mangiare degli spaghetti italiani, al che qualcuno ha commentato il post dicendo che a Venezia aveva mangiato il peggior piatto di spaghetti della sua vita. Mi ha rovinato l’entusiasmo e gli ho risposto che era stato semplicemente sfortunato, tanto che pure restando a Taiwan può capitare di mangiarne di pessimi. Questo per dirvi: dobbiamo ricordarci le cose belle e dimenticare le cose brutte, e lo stesso vale per i film.

[…]

Nel mondo asiatico c’è una nettissima separazione tra cinema e arte: il cinema è qualcosa che si capisce e piace alla gente, l’arte è qualcosa che obbedisce alla volontà di chi la crea, incomprensibile. Le concezioni di estetica poi sono diverse da Oriente a Occidente: per l’uno il repertorio di immagini proviene dall’arte, per l’altro dal cinema e dalla televisione. I film orientali sono tutti prodotti strutturati allo stesso modo: ci sono dialoghi, trama, sentimenti. A partire da Vive l’amour [1994] fino a Il buco [1998], le persone non capivano i miei film: tutti si domandavano come un regista potesse sopravvivere e continuare a lavorare facendo film “incomprensibili”. Bu San non fu affatto un successo al botteghino, ma il mondo dell’arte cominciò a cercarmi: il Museo del Louvre mi contattò per girare ed esporre il film Visage [2009]. All’inizio ne fui molto sorpreso, poi compresi che il cinema non dava abbastanza libertà di creazione perché se un’opera non incassava poteva sperare di restare in sala al massimo due giorni; al contrario, i miei film potevano avere un ruolo all’interno delle gallerie d’arte. Poi arrivò Stray Dogs [2013] e feci incetta di premi, sicché anche i cinema – sperando di attirare spettatori – iniziarono a contattarmi, ma ormai non ci credevo più. Penso infatti che il pubblico non possa cambiare nello spazio di un solo film. In una galleria di Taiwan – interna all’Accademia di Belle Arti – con cui collaboravo il mio Bu San fu proiettato per dieci settimane in ben tre spazi diversi, anche se il problema in un certo senso restava, perché non si vedono mai folle paganti che frequentano le gallerie.

Mi recai allora nella mensa dell’Accademia e con un amico e un megafono mi misi a vendere direttamente i biglietti – per un prezzo irrisorio – agli studenti. Sono ormai 19 anni che io e i miei collaboratori non facciamo promozione ma andiamo per strada a vendere biglietti fino a raggiungere la cifra di 10mila, sufficiente per esigere dal gestore di una sala due settimane di proiezione. Il cambiamento del pubblico lo iniziai a notare quando sempre più persone si recavano in galleria per vedere un mio film, confrontandosi per la prima volta con qualcosa di lungo e incomprensibile. Ma per loro andava bene così, segno che il cinema poteva diventare arte.

L’anno scorso ho presentato qui alla Mostra Your face: dura 79 minuti e in 14 scene si mostra il volto di ognuno dei 13 personaggi, in primissimo piano. Quando raccolsi i fantomatici 10mila biglietti per farlo proiettare al cinema, notai che le persone in sala non si chiedevano più perché un film del genere venisse mostrato in un cinema.

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“Ni de lian” (2018), frame con Lee Kang-sheng

A dire il vero io ero cresciuto con film di tutt’altro spessore. Tornato a Taiwan a vent’anni, ancora non avevo idea di chi fossero Fellini, Antonioni, Truffaut: andavano di moda film colorati, musicali, e opere del genere non arrivavano, a differenza per esempio del Giappone. Lo stesso cinema giapponese era più avanzato rispetto al nostro: c’erano Ozu, Kurosawa, e per certi aspetti aveva già raggiunto i livelli del grande cinema europeo. Quello che invece giungeva a me era il cinema commerciale, dove contavano le star e le grandi storie, e fino agli anni Ottanta, quando Hou Hsia-hsien iniziò a girare i suoi film, il panorama asiatico mancava di diversità.

Oggi ho voluto raccontarvi queste mie memorie musicali e cinematografiche per farvi capire come per la mia generazione il cinema fosse un tempio, mentre oggi è un centro commerciale. Non che sia particolarmente contrario a Hollywood o all’industria cinematografica, ma per quanto mi riguarda preferisco realizzare film che richiedano manualità, spesso con una troupe piccolissima, perché fare film non significa spendere o fare soldi. Bisogna tutelare il concetto di autore, al quale deve essere lasciata totale libertà di girare e mostrare il suo film – un diritto che non spetta né al produttore né al distributore. Per i giovani filmmaker questa è un’epoca fantastica: è vero che Hollywood è più grande che mai e che i film indipendenti lottano tra di loro, ma l’idea che il cinema possa essere esposto in gallerie d’arte si sta diffondendo, risolvendo questi problemi.

Colgo l’occasione per annunciarvi che ho già completato il girato del mio prossimo film – per poco non lo presentavo a Venezia. L’ho realizzato con una troupe e un budget ridottissimi in un tempo di circa 4 anni. Ci sono solo due interpreti: Lee Kang-sheng e l’esordiente Anon, originario del Laos. Come fu per Lee, anche lui l’ho incontrato per caso per strada. Come sapete non mi limito mai a una sola collaborazione, quindi mi sto già chiedendo come fare per farli recitare insieme in un prossimo film».