Dopo l’esperienza virtual reality di Jia Zai Lanre Si (The Deserted), presentato la scorsa edizione al Lazzaretto Vecchio, l’estro sperimentatore di Tsai Ming-liang passa all’estremo opposto, facendo del close up e delle facoltà euristiche di quest’ultimo il proprio campo di indagine.
Speculare e al medesimo tempo complementare al corto precedente, Ni de lian (Yoru Face) rappresenta un unicum nella filmografia del cineasta taiwanese per due ordini di ragioni.
Facendo dell’esclusività del primissimo piano la condizione necessaria del suo documentario, Tsai sferra l’attacco decisivo alla soglia di sopportazione dello spettatore cinematografico con una “vivisezione” di volti umani della durata di un’ora e un quarto. Eccezion fatta per l’immancabile Lee Kang-sheng, i soggetti in campo non appartengono al cerchio magico degli attori-feticcio di Tsai, anzi, non sono nemmeno attori: si tratta di persone qualunque – in prevalenza anziani – reclutate dal regista nel corso dei suoi due mesi di peregrinazione per le strade di Taipei e dintorni alla ricerca di facce interessanti.
C’è chi preferisce rispondere alle domande dell’autore – che non nasconde la propria presenza al di qua della macchina da presa –, chi parlare del più e del meno e chi, semplicemente, starsene in silenzio: quale che sia l’atteggiamento dinanzi all’obiettivo, la durata sovrabbondante di ciascuna inquadratura ci invita a leggere il loro volto come una composizione cinematografica, a desumere le loro storie non da quanto dicono, bensì dalle emozioni che stirano i muscoli facciali, dalle rughe e dagli altri segni di una vita che appare a volte vissuta, a volte dissipata. Ma forse, polemizza il regista, la bellezza sta proprio nel passaggio del tempo, in questo caso un doppio tempo: i bei tempi andati, il passato con gli infiniti “e se…” che la memoria non fa altro che moltiplicare; il tempo filmico, il presente che ci permette di decifrare ciò che viene proiettato sullo schermo, di cui non siamo mai sazi. Perché carpire la bellezza significa perderla nell’istante stesso in cui tale realizzazione avviene. Bellezza e sofferenza costituiscono così un binomio inscindibile, come ci ricordano alcuni dei più espansivi intervistati rievocando rimpianti e vecchie fiamme.
La seconda novità è, più che una novità assoluta, un ritorno in grande stile. Ni de lian è infatti il primo film dai tempi di Rebels of the Neon God (1992) per cui si può parlare di “colonna sonora” nel senso proprio del termine. Imbattutosi per caso in Ryuichi Sakamoto qui al Lido un anno fa, Tsai accennò al compositore giapponese il progetto su cui stava lavorando, il quale poi gli chiese il favore di inviargli il girato una volta tornato a casa. Alcune settimane dopo avergli mandato quanto richiesto, Tsai ricevette per tutta risposta dei file audio che Sakamoto invitava a usare a proprio piacimento. Ma qual è il portato di questa operazione?
Per il cinema di Tsai infatti, anche se non mancano momenti in cui il canto e il ballo stravolgono il tenore della riflessione, è più opportuno parlare di musiche piuttosto che di musica – si intende “musica per film”, nell’accezione che il termine ha assunto nel discorso del cinema di consumo. L’aspirazione a catturare l’impercettibile che percorre ogni pellicola in alcuni titoli si scontra con gli intermezzi musicali, spesso interpretabili su più piani e non necessariamente incompatibili tra loro: può trattarsi di omaggio come ne Il buco (1998), esplicitare i simboli che filtrano dalla quotidianità meccanica e monodimensionale come ne Il gusto dell’anguria (2005), e, ancora, essere proiezione dell’inconscio – Visage (2009). Se è vero che le due dimensioni si compenetrano, è altrettanto vero che non manca mai la cesura, la soluzione di continuità a segnalare il passaggio da un mondo all’altro.
Eppure in quest’ultima fatica ciò non avviene. Le tracce di elettronica sperimentale di Sakamoto, minimaliste e puntiformi, vivono in simbiosi con l’immagine nello stesso tempo e ne adiuvano la scansione, senza diramarsi nello spazio, su quel palcoscenico da musical entro il quale Tsai aveva fino a oggi circoscritto il campo d’azione della musica. Questo sembra essere Ni de lian: negazione dello spazio e autarchia del tempo, contraltare ideale di Jia Zai Lanre Si che era invece apoteosi dello spazio, svincolato per mezzo del visore a 360 gradi dall’unidirezionalità della visione.
Meno iconoclasta del corto in VR sopra citato, se si guarda al dato tecnico Ni de lian è a tutti gli effetti un lungometraggio ma riteniamo vada inteso nell’ottica di un percorso più ampio, probabilmente ancora da completarsi e che Tsai intende ponderare con attenzione prima di inaugurare una nuova fase del suo cinema. Un’opera minore ma memorabile, imprescindibile tassello della poetica dell’autore.