Ludovic Chevalier è molto probabilmente un torturatore di ragazzine, e si trova nell’aula di un tribunale in attesa di giudizio, in quanto sospettato di averne spietatamente uccise tre. Ma ovviamente, come Sidney Lumet ci insegna, nessuno è colpevole finché ciò non viene dimostrato “oltre ogni ragionevole dubbio”. E il dubbio che questo insignificante ometto senza muscoli e personalità sia in realtà innocente può scaturire, soprattutto quando le sue groupie, ragazzine con un approccio alla realtà fra il patologico e il vittimistico, lo ricoprono di attenzioni e sostengono convintamente che l’accusa sia basata su un’enorme macchinazione. A complicare le cose interviene lo strano comportamento di Kelly-Anne, eterea e fascinosa modella, che prende a seguire il processo senza un evidente motivo concreto.
Pascal Plante è uno dei talentuosi rappresentanti della varia e movimentata scena cinematografica “québécoise” francofona (fra gli altri, delle più varie generazioni, ricordiamo Denys Arcand, François Girard, Denis Villeneuve, Denis Côté, Xavier Dolan e lo stesso Vincent Biron, che qui dirige la fotografia), ed è arrivato in concorso al principale festival centroeuropeo con la sua terza prova registica, che (dobbiamo dirlo subito) centra perfettamente il bersaglio, con risultati eccellenti in tutti i comparti. Il suo esordio era stato “Les faux tatouages”, una vicenda amorosa del 2017, mentre il suo secondo lavoro trovava un punto di forza nella sua precedente esperienza di nuotatore professionista: “Nadia, Butterfly” è, infatti, una storia incentrata attorno ad una giovane nuotatrice olimpica.
Qui Plante, che conferma la costante attenzione e gli ottimi rapporti del festival ceco con la scena artistica di Montreal e dintorni, scommette su una sgradevole vicenda di serial killer. Spregevole e sanguinosa quanto si vuole, ma che non scade mai nel voyerismo o nelle secche del film di genere, che siano questi i trucchetti emotivi dell’horror/splatter, o le pesantezze procedurali del court movie. Non siamo dunque dalle parti di un meccanico episodio di “Criminal Minds”, ma, d’altra parte, non ci si deve neanche aspettare figure “charmant” come Hannibal Lecter, anche perché Plante non ci conduce nei meandri della “mente dell’assassino”, ma piuttosto in quell’“indotto” antropologico che circonda tali efferati fatti di sangue: Clémentine e Kelly-Anne sono due ragazze diversissime, la prima insicura e malvestita, la seconda altera nella sua bellezza da modella e dotata di eccezionali competenze matematiche (gioca a poker online, è una esperta hacker), ma sono entrambe accomunate dal fatto di non perdersi una singola seduta del processo, a costo di dormire all’addiaccio per assicurarsi l’ingresso alle varie sedute.
Ma qui il tribunale non diventa teatro degli orrori, non siamo posti davanti a uno spettacolo efferato o a un’esposizione dettagliata per menti curiose, bensì ad una triangolazione enigmatica fra vittime (teenager bionde e carine), seguaci più o meno maniacali dell’imputato, e imputato stesso, silente e apparentemente avulso, chiuso com’è nella sua gabbia da animale. Il “mostro” viene presentato più che altro con gli strumenti della sottrazione: assenza di qualità psicologiche, di charme e fascino, assenza, soprattutto, di visioni dirette delle torture inflitte alle giovani vittime, infine anche assenza di parole (scelta peculiare e azzeccata è che l’interprete del presunto assassino sia uno dei pochi attori anglofoni del cast, realmente incapace, dunque, di seguire il dibattimento e di reagire emotivamente a quanto tutti gli altri personaggi/attori, francofoni, dicono sul suo conto).
La fotografia di Vincent Biron (che esordì da regista alla Settimana della Critica veneziana nel 2016, con il suo irriverente “Prank”) predilige i toni freddi e asettici, di modo che l’Aula del tribunale richiami un ospedale, o addirittura un obitorio, dove in effetti vengono dissezionati i sentimenti dei parenti delle vittime, costretti a rivivere le atroci torture inflitte alle figlie attraverso le sofferte parole dell’accusa. Ma più che seguire le deviazioni psicopatiche dell’accusato o ricostruire i suoi percorsi interni morbosi, il film “devia”, appunto, sull’esterno, sugli addentellati del crimine, sull’attenzione più o meno inspiegabile che si risveglia nelle ragazze/adoratrici, che vediamo interagire e confrontarsi in luoghi “oscuri”, come il lussuoso loft di Kelly-Anne, una sorta di antro ipertecnologico dove la luce fatica ad entrare, o in luoghi/non luoghi, luoghi/soglia, come corridoi, marciapiedi, file, o anche palestre, dove la fisicità cerca di ristabilire un equilibrio sulle eccessive elucubrazioni mentali che si riavvolgono dolorose su se stesse. Infine la fotografia di Biron fa buon uso di filtri e di procedimenti di rispecchiamento/duplicazione dell’immagine: il rosso del titolo si riferisce al mito metropolitano delle “red room” (una sorta di siti per snuff movie interattivi), e tale colore si riflette sui volti in primo piano delle protagoniste nei momenti di maggiore tensione, mentre i filtri di finestre, schermi di pc e porte a vetro permettono di concretizzare le tensioni spasmodiche degli sguardi e la spinta scopico-conoscitiva.
Plante riesce dunque a privilegiare il “come”, i valori estetici e geometrici (formidabile la lunga sequenza di dodici minuti all’inizio del film, atta a squadrare tutti gli angoli del “ring” del tribunale e le forze in campo), rispetto al più tradizionale “cosa”, rimanendo saldamente nel campo del cinema d’autore. Quello che non vediamo è più importante di ciò che potrebbe esserci volgarmente spiattellato in faccia, il confine fra osservatore e operatore attivo tende a sfaldarsi, i ruoli positivi e negativi si sovrappongono, lasciandoci l’amaro in bocca di uno scioglimento finale che è solo apparentemente un happy ending…Insomma un thriller di ottima qualità sulla soggettività femminile che mette a rischio la propria incolumità mentale, che a nostro modesto avviso meriterebbe una buona distribuzione anche in Italia.