Presentato nella sezione Orizzonti, Los versos del olvido è il primo lungometraggio di Alireza Khatami, che a partire da una pagina nera della Storia cilena narra in chiave surreale e onirica la ricerca di un uomo.

Un anziano custode di obitorio dalla formidabile memoria – Juan Margallo – trascorre le sue giornate in compagnia di soli cadaveri, eccezion fatta per il becchino cantastorie che a ogni nuova fossa da scavare si intrattiene con lui. Un giorno, le forze di polizia irrompono nella struttura per occultare nelle celle frigorifere i corpi di alcuni manifestanti, tra cui quello di una giovane donna. Inizia così per il vecchio un’odissea ai limiti del possibile nel tentativo di dare alla ragazza ignota degna sepoltura.

Non è un caso che questo racconto di oblio – l’olvido del titolo – abbia per meccanismo di innesco una dei cosiddetti desaparecidos, coloro che sotto Pinochet e altri di tal risma furono fatti scomparire nel nulla, arrestati o peggio a causa delle proprie vedute insofferenti al regime. Il nome, il fondamento del processo classificatorio con cui attribuiamo senso alla realtà, è un elemento del tutto assente: è l’unica cosa che il protagonista proprio non riesce a ricordare. La narrazione risulta di conseguenza discontinua, come se di quanto si voleva raccontare si fossero persi capo e coda; le figure – anche queste senza nome – in cui si imbatte il custode non appaiono nemmeno umane, se non nelle proprie ossessioni; il tempo è dilatato, sia per mezzo di inquadrature statiche attentamente composte che giocano con la profondità di campo che del montaggio ellittico.

Ma come detto dal profetico becchino, «ogni storia ha bisogno di un finale». E il personaggio interpretato da Margallo decide di concedere alla giovane giunta senza giustificazioni in un sacco nero il privilegio della parola «fine»: ma per farlo, deve prima risalire la corrente del passato e scoprirne l’identità. Simbolicamente, un atto di ribellione a chi in quegli anni pretendeva di dettare legge eliminando fisicamente le voci di dissenso e che invece avrebbero finito per esserne inglobati – come si evince dalla sequenza nell’archivio in cui i gendarmi scompaiono nel dedalo di documenti.

los versos del olvido

A ogni modo, per quanto possa essere lodevole l’intenzione comunicativa, la sua traduzione in immagini in movimento lascia parecchio a desiderare. Forse perché al proprio esordio, Khatami riversa indiscriminatamente nella pellicola la propria interiorità, conseguendo un risultato pedantemente intimista, autoreferenziale e che possiede al più il fascino dell’assurdo. La poetica de Los versos del olvido non è condensata, ma anzi diluita, sicché molte sezioni del film altro non sono che ripetizioni di concetti precedentemente espressi, appesantite da alcune scelte ardite che rivelano il compiacimento del regista nell’avventurarsi nel dominio dell’assurdo, cambiando repentinamente registro da drammatico a grottesco.

Un’opera prima velleitariamente autoriale che non cattura l’attenzione e, soprattutto, troppo povera di sostanza per scandagliare concretamente sia la situazione storica che la riflessione esistenziale citate.