Siamo in Ucraina, in un luogo non lontanissimo dalla capitale Kyiv, e una giovane coppia ha da poco preso possesso di un nuovissimo appartamento in una zona residenziale. La speranza, del tutto comprensibile in tempi normali, è che quel piccolo nido nuovo di zecca potrà accogliere un nuovo progetto di vita e diventare un nuovo, accogliente focolare domestico. Sarebbe tutto bello e poetico, quasi un sogno…se non ci fossero i russi ad invadere, di nuovo (ricordiamolo, dopo la Crimea del 2014) il paese, nel febbraio del 2022. Cosa fare, come organizzarsi? sperare che i carri armati con le Z passino oltre, fuggire finché si è in tempo, o “adattarsi” e fare finta che quella possa essere una strana, orribile, mortifera “luna di miele” da segregati in casa?
Zhanna Ozirna è una giovane autrice ucraina, che qui esordisce con il primo lungometraggio, grazie al lodevole impegno del progetto Biennale College, che da qualche anno qui alla Mostra veneziana sostiene progetti a basso (o addirittura micro-) budget di artisti talentuosi e promettenti. La Ozirna ha recitato nel secondo lungometraggio di finzione di Roman Bondarchuk (The Editorial Office), che è passato quest’anno alla Berlinale, ha già girato alcuni cortometraggi interessanti, che è possibile recuperare quasi gratuitamente su “Takflix”, la piattaforma dedicata al nuovo cinema ucraino, e mai come in questo caso il sostegno produttivo ai nuovi talenti sembra essere opportuno, se consideriamo (ed è inevitabile farlo per valutare correttamente il film) le condizioni lavorative e produttive all’interno delle quali è sorta questa interessante opera.
Inutile girarci intorno: al momento creare un film di finzione in Ucraina è un vero e proprio MIRACOLO, con le bombe e i missili russi che cadono ogni giorno sulle principali città, con il rischio che un eventuale set all’aperto venga bombardato, con continue interruzioni di corrente che rendono difficile persino asciugarsi i capelli e mandare un file per posta elettronica, figuriamoci gestire una troupe cinematografica, con il sostegno economico da parte delle strutture governative preposte ridotto a zero, con il sistema dei pitching e dei festival quasi totalmente scardinato (pensiamo a quel Derzhkino che è stato alla base della “nuova ondata” ucraina dei vari Lukich, Vasjanovich, Nikitjuk, Horlova, Er Horbach, Sucholytkyj-Sobchuk), in quanto la maggior parte dei mezzi finanziari è stata comprensibilmente dirottata sulla difesa delle città dai razzi russi e sull’esercito.
Alcuni dei film ucraini che abbiamo potuto vedere in alcuni festival dopo l’invasione su larga scala del 2022 erano in buona parte stati girati prima, erano stati colti dall’emergenza già in fase di montaggio o post-produzione, o sono dei documentari, spesso funzionali proprio all’illustrazione dei crimini di guerra o delle sofferenze della popolazione (un esempio su tutti: il premio Oscar 20 Days in Mariupol). A maggior ragione un film piccolo come questo (il primo film di fiction girato in Ucraina completamente in condizioni di guerra) va valutato, nei suoi alti e bassi, nei suoi meriti e in certe sue imperfezioni, nell’ottica della “meraviglia” e dell’interrogativo quasi esistenziale. Come è possibile fare ancora arte, come è possibile pensare alla letteratura, alla pittura, perfino al cinema, con milioni di profughi interni e di cittadini fuggiti all’estero, con uno scenario di danni alle cose e alle persone quasi apocalittico? Ed uno degli interrogativi che la regista ci pone con questo suo film (se non proprio “da camera”, per lo meno “d’appartamento”) è: che scelte fare fra le varie categorie di valori? In condizioni catastrofiche di guerra vale di più una vita umana nella sua banale e insignificante quotidianità, o si dovranno privilegiare e proteggere le opere d’arte? Si devono difendere le case, con il loro prezioso “contenuto” di abitanti, o le istituzioni culturali? I sistemi anti-aerei devono difendere le centrali elettriche o i musei?…Potremmo cogliere, se proprio vogliamo, un’eco della domanda, molto probabilmente apocrifa ma comunque significativa, attribuita a Winston Churchill, “What are we fighting for?”.
Sono questioni che, sebbene non in modo così altisonante, ma con la semplicità del caso individuale, si pongono Taras e Olja, giovane coppia che ha fatto la scelta sbagliata, decidendo di rimanere attaccata alla “roba”, alla nuova casa da arredare, invece di abbandonare baracca e burattini già al primo giorno dell’invasione. Olja, in particolare, è una scultrice, e il peso di coscienza che la assale, la zavorra artistico-morale che la segna in questi ottanta minuti scarsi è la sua incapacità di staccarsi dalle proprie opere d’arte per fuggire in occidente quando le frontiere sono ancora aperte. Queste frontiere, purtroppo, si chiudono subito dopo attorno ai due giovani, non solo a segnalare un’Ucraina circondata e in parte isolata dal mondo normale, ma soprattutto a creare una prigione domestica, l’appartamento ancora zeppo di scatole chiuse ed oggetti incartati, che diventa ad un tempo “panic room”, barricata interiore, trappola per topi, ma anche luogo obbligatorio di riflessione e di conoscenza. “Panic room” si diceva, e infatti nel film cogliamo toni da thriller, da dramma psicologico, se non proprio da horror domestico, di quelli in cui il Mostro, però, è invisibile. Dopo che i militari invasori con le Z del nuovo fascismo russo si sono insediati proprio nella loro nuova palazzina mezza vuota, marito e moglie sono costretti a guardarsi in faccia e a guardare in faccia la realtà, con tutti i suoi addentellati infernali: era davvero così importante scegliere la giusta tonalità di bianco per le pareti? Che importanza ha nella nostra vita il divano all’ultima moda? A cosa ci servono gli oggetti “inutili”, come la serie di immacolate statuine artistiche o gli eventuali soprammobili ancora avvolti nel cellophane di una casa assediata? E, ancora, l’attenzione tutta matematica ai giorni fertili, il dubbio se ampliare o meno la famiglia, le piccole cure del nucleo affettivo come si possono ancora inquadrare, re-interpretare, rivitalizzare sullo sfondo del rischio di uno stupro di gruppo da parte degli invasori? E, ancora sulla famiglia, che fare di quei genitori che stanno “dall’altra parte” di frontiere fisiche e valoriali? Roman, psicoterapeuta in difficoltà ad analizzare anche se stesso, è uno degli innumerevoli figli di famiglie miste, e il padre via computer lo minaccia dalla russia con un aggressivo accento “patriottico”: i soldati di putin verranno presto a fare pulizia, e i figli e parenti ucraini saranno trattati come scarafaggi e topi, è meglio fuggire. Ad un orecchio inesperto tali toni potrebbero sembrare esagerati o addirittura caricaturali, ma per chi studia il doloroso argomento dei rapporti familiari distrutti nelle famiglie miste l’episodio ricorda innumerevoli casi concreti e ampiamente registrati.
Semmai, in questa ed altre “semplificazioni di sceneggiatura”, come l’invito della protagonista femminile a sostenere l’esercito ucraino e a non temere una supposta “escalation”, vediamo a volte delle consapevoli e forse inevitabili scorciatoie per un pubblico straniero, in quanto di sicuro il film, al di là del suo innegabile valore artistico, svolge anche (ma non esclusivamente) una prevedibile funzione informativa e di “agitazione delle coscienze”. Ci chiediamo anche quanto interesse possa suscitare questo “Honeymoon” in uno spettatore ucraino medio, già ben consapevole di quanto è successo e accade nella propria terra invasa, ma va ricordato che da qualche anno a questa parte la Settima Arte svolge a Kyiv e dintorni anche un ruolo terapeutico di collante psicologico ed esperienziale, e la storia qui narrata è basata anche su interviste a cittadini che hanno vissuto simili esperienze nella vita reale. A questo proposito diremo che i meriti e i demeriti di questo buon film vanno spesso a braccetto, in forza, lo ripetiamo, delle difficoltose condizioni produttive. Spesso, infatti, quasi come principio raffigurativo fondante, la Ozirna sceglie (e/o è costretta a scegliere) l’ellissi, la metonimia, l’assenza visiva. Non vedremo mai i carri armati, i soldati russi li sentiamo ma non li incontriamo mai sullo schermo, i loro crimini (compresi quelli sessuali) li avvertiamo indirettamente, attraverso il suono, all’interno di un procedimento metonimico che da comprensibile strumento di economia produttiva si fa anche funzionale e riuscito strumento espressivo, scelta poetica che aggira la violenza mostrata in favore di una tensione suggerita.
L’orrore dell’invasione è come attutito, mediato, stemperato, non per ridurne la tragicità, ma per permetterci di seguire, quasi in concentrato silenzio, i pensieri e i dubbi, le reazioni emotive e le piccole esplosioni di odio dei due protagonisti, che rispondono adeguatamente alle esplosioni reali che qui e lì sentiamo in lontananza. L’odio è uno dei comprensibili centri emotivi del film, che esprime quello che è l’umore di buona parte della popolazione ucraina dopo l’ennesima invasione russa: sintomatica è la “preghiera dell’odio” che Olja, giovane e bella donna dalla sorte segnata se cadesse nelle grinfie dei soldati Z, rivolge ad un Dio probabilmente corrucciato e incerto. Ad un certo punto dalle sue labbra risuona il testo di una “anti-preghiera”, un padre nostro eretico: “Padre Nostro, fa che i nostri nemici brucino all’inferno…e che soffrano fino alla settima generazione…perdona a noi le nostre colpe, ma non perdonarle ai nostri nemici”. È una maledizione biblica che potrà scandalizzare le anime belle e i seguaci un po’ ingenui di Jorge Bergoglio che credono che basti un abbraccio fra un russo e un ucraino durante una Via Crucis per mettere la pietra sopra a migliaia di crimini di guerra, ma è purtroppo la più reale e sincera fotografia del sentimento di una nazione stuprata, che per perdonare (se potrà perdonare) dovrà prima vedere la fine della guerra e dell’invasione.
Si parlava di difetti, e figuriamoci se l’esordio low budget di una giovane artista in guerra non ne ha! Alcuni elementi vengono accennati, ma poi non sono adeguatamente sviluppati (che fine fanno le scorte d’acqua e di cibo, come fanno i protagonisti a non avere un freddo tremendo in un appartamento senza elettricità a febbraio?), altre volte è proprio la fase di scrittura che avrebbe forse necessitato di un’ultimissima revisione, ma il film è stato creato in tempi da record e sul filo del rasoio, e la breve durata e il carattere intimo dell’opera probabilmente non hanno permesso di sviluppare alla perfezione questi ed altri piccoli elementi. Ripetiamolo, comunque, molto si perdona ad un film che con la sua stessa esistenza ha dell’incomprensibile e del miracoloso, motivo per cui va lodato il coraggio e la tenacia del principale produttore, Dmytro Suchanov della Toyfilm, il cui ottimo lavoro avevamo già apprezzato per esempio nell’esordio del succitato Antonio Lukich, mentre per il montaggio e la consulenza alla sceneggiatura la Ozirna si è avvalsa dell’aiuto di un altro talento da tenere d’occhio, quel Filip Sotnychenko che in veste di regista ha vinto l’ultimo Festival di Torino con il suo La Palisiada. Da menzionare e lodare anche la prova dei due attori principali, l’affascinante Iryna Nirsha e il Roman Luc’kyj che avevamo già conosciuto in Reflection di Valentyn Vasjanovych. Queste ed altre maestranze ucraine sono ancora vive, ma molti attori, montatori, tecnici sono al fronte contro la propria volontà, e moltissimi artisti di quel Paese sono già morti. Anche solo per questo motivo bisogna vedere e parlare di questo bell’esordio, affinché viva il cinema ucraino.