Stretto nella sezione Orizzonti di Venezia 81, Marco è l’ultima creatura del cerbero Arregi-Garaño-Goenaga, nuovamente a loro agio fuori dai confini baschi e non affatto intimoriti dalla rinuncia all’utilizzo dell’euskera che ne contraddistingueva la poetica fino a poco fa. Cambia la geografia (siamo in Catalogna) ma non l’ispirazione politica del discorso della coppia (e del loro fedele collaboratore), giacché l’oggetto di indagine è nuovamente il periodo franchista, e più nello specifico la memoria storica della transizione democratica in Spagna. Tratto dal romanzo L’impostore di Javier Cercas, che compare nel film in quanto figura integrante della riflessione su verità e narrazione che ne è il cuore pulsante.
Marco è un resoconto sullo scandalo scoppiato in Spagna nel 2005 quando venne a galla la verità sull’eponimo Enric Marco Batlle, per anni portavoce e presidente dell’Associazione spagnola delle vittime dell’Olocausto, stimato e politicamente riconosciuto, tanto carismatico quanto sfacciato, ma soprattutto capace di inventarsi un’autentica vita parallela in cui fu deportato nel campo di concentramento di Flossenburg, e da lì di costruire a ritroso un passato mai esistito come membro della CNT e fiero oppositore di Franco.
Biopic estremamente sui generis, quest’esegesi di Enric Marco non riguarda tanto la sua storia quanto la storia in sé, intesa prima come generica narrazione e poi, anche, con la S maiuscola. Seguendo le tracce del romanzo di Cercas, per cui la figura del mentiroso risulta il dispositivo perfetto per confrontarsi direttamente col significato del racconto della verità e farlo attraverso una narrazione (approcciata semioticamente come scienza della menzogna), Arregi e Garaño, nel ripercorrere le rivelazioni e il conseguente crollo del castello di carte costruito dall’impostore, costruiscono il loro film come un’indagine sul meccanismo filmico. Alla finzione del personaggio, due volte autore e attore di sé, interprete dell’interprete della sua persona, corrisponde una finzione filmica che si palesa come tale proporzionalmente alla pantomima del suo protagonista.
Impostore e cospiratore perfetto, così perfetto da non lasciare alcuna traccia della sua parabola di oppositore politico, quasi come se questa parabola non fosse mai esistita, Enric Marco architetta la sua finzione così bene da viverla, ingannando non solo l’Associazione e il parlamento spagnolo, ma la sua famiglia e financo se stesso. Da bravo bugiardo, colorando narrativamente la verità storica e insufflando un quid di autenticità nelle sue panzane, diventa un punto di riferimento per la nazione: i ragazzini ignoranti nelle scuole periferiche così come alcune delle influenti personalità del governo Zapatero pendono dalle sue labbra; il suo talento è l’oratoria, è più convincente rispetto ai deportati “certificati” perché capace di venire incontro alle necessità del suo pubblico, adattandosi di volta in volta alle esigenze altrui. Tutto pur di essere protagonista, di occupare lo spazio dei giornali e dei servizi televisivi; non c’è cosa che Enric non farebbe per soddisfare la sua mediopatia bulimica.
E se l’obiettivo di Cercas era riflettere sull’ipocrisia congenita della nozione di memoria storica, a suo dire prona allo scivolamento verso il territorio della storia edificante o della semplificazione mediale (cioè trasmissione di un messaggio a scapito della complessità della storia), così da poter alfine condurre una requisitoria sul ruolo dell’affabulazione e soprattutto sulla necessità della stessa (senza spingersi tuttavia fino allo homo narrans di Barthes o all’identità narrativa di Ricœur), i registi baschi si fanno portatori di un ragionamento più sofistico che sofisticato, ovvero si mettono dalla parte di Gorgia. Il film riguarda non tanto la necessità formale della finzione (o la narrativizzazione della costruzione del senso linguistico) quanto l’al contempo banale e complesso intrecciarsi della verità storica e della finzionalità connaturata al racconto in sé.
Il primo ciak del film davanti alla mdp non viene tagliato, e nel momento di massima tensione, quando Enric Marco si vede costretto ad ammettere le proprie bugie, di nuovo la mdp si palesa come in mockumentary, e dal film di quest’ultimo – mattatore assoluto per due terzi della durata complessiva per merito di una prova spessa, densissima, di Eduard Fernández – si passa al film vero e proprio, in cui con un’impennata repentina il Marco-personaggio inizia a interagire e a sovrapporsi col Marco-persona, fino a dialogare con lo stesso Cercas grazie a un campo/controcampo con i filmati di repertorio di un aperitivo letterario, in una spirale che frastorna i vari livelli diegetici. Il finto Marco-attore difende il racconto di sé che a quel punto non è diverso da quello che fa il reale Marco-attante, che difende la verità della sua storia al di là delle bugie, anzi in virtù delle bugie, perché se ogni vita è una storia, che cambia se autentica o artata? La sua vita non è meno vivida, meno unica; dopotutto non l’ha comunque vissuta?
Non è abbastanza per definire il Marco-film come un’opera decostruzionista com’è fin troppo agevole asserire, anche e non solo perché permane l’impressione che non si sia spinto sull’acceleratore fino al punto di rottura pur di rimanere all’interno di registro sufficientemente accessibile, ma il quarto lungometraggio di Arregi e Garaño è sia una raffinata operazione di comunicazione intertestuale che un sistema di considerazioni coerenti sulla natura della finzione cinematografica, peraltro perfettamente innervata nella ratio indagatrice e testimoniale del cinema del duo basco.