“In my dream, I was two cats, and I was playing with each other”. Con questa frase di Frigyes Karinthy si apre Ruben Brandt, collector, il primo vero film di Milorad Krstić, dopo una vita nell’arthouse e nella fotografia, sinceramente esplicativa della natura rigorosamente plurale del film, in cui ogni cosa è scomposta e nella sua scomposizione raddoppiata, triplicata, decostruita fino a venire rappresentata in ogni sua sfumatura.

Non a caso Krstić sceglie il terreno della separazione dell’unico per eccellenza come fulcro narrativo del suo film, creando il personaggio di Ruben Brandt, psicoterapeuta dall’animo artistico che, tormentato dagli incubi, decide di applicare il suo metodo psicanalitico a se stesso, finendo per organizzare i furti dei famosissimi quadri i cui personaggi gli causano allucinazioni così violente da precludergli una piena adesione alla realtà. Aiutato dal suo quartetto di pazienti cleptomani e braccato dalla mafia e dal detective privato Kowalski, Ruben ci trasporta in questo mondo surreale animato sulla scia delle lezioni e dell’influenza sul carattere immaginifico di Buñuel e Dalì. Invero le ispirazioni e i richiami sono molti di più, e vanno dall’arte figurativa e quella cinematografica, dalla fotografia alla musica, ma il film non è tanto un generico “film sull’arte” – anche se questa è sempre al centro della vicenda – ma piuttosto un prodotto più o meno ibrido tra il cinema e la video-arte che consiste, di fatto, in un divertissement colto che tenta di sfruttare le risorse del macchina da presa per creare una pura esperienza visiva, un unicum di questo Locarno Festival del 2018.

A partire dall’animazione, ispirata a quei diversi stili raffigurativi che sono l’ispirazione e il campo di competenza del regista (anche pittore), viene condotto un discorso sulla capacità di creare nuovi linguaggi visivi a partire dal sondare l’immensa complessità umana, che in questo caso si manifesta attraverso l’arte e la psicologia. Quest’ultima fa da tramite per giocare con le immagini e i suoi significati, almeno in un primo tempo, poi invece lascia spazio a quel talento fantasioso che deturpa gli uomini e le cose, moltiplicandone i nasi e le orecchie e gli occhi fino a smontare ogni singola inquadratura, parafrasando, in uno dei tanti riferimenti e richiami, Picasso e il suo stile caratteristico. Tutto questo senza perdersi in una rottura sterile delle convenzioni del cinema e più in particolare dell’animazione tradizionale, ma incastonando questa scaglione d’ambito visivo in una base narrativa più che solida, anch’essa capace di scherzare, lasciandoli e riprendendoli, i lemmi dei generi noir e mystery, per lambirne poi anche gli stereotipi e giocare con essi, a cavallo tra colpi di scena improbabili, sequenze action iperbolicamente acrobatiche e una impostazione tempistica che oscilla tra tragicomico e hardboiled ma si dispiega con un ritmo giustissimo.

Si tratta di un vero e proprio bombardamento sensoriale in grado di spremere fino in fondo tutto ciò che possono dare i lati visivo e sonoro di un lavoro del genere, moltiplicando le suggestioni, affrontando tematiche tipiche per poi disassemblarle e ricostruirle, affidandosi totalmente al talento visionario del suo autore. Le nozioni base di psicologia gli servono, appunto, per darsi uno schema con cui lavorare sulle animazioni – ideate e disegnate sempre dallo stesso Krstić – e per avere una struttura su cui sviluppare le sua rifrazioni, simboleggiando, o meglio, rimandando, senza esagerare con l’occultamento dei significati, all’idea che vuole esprimere. Questo elemento psicologistico infatti permea comunque il livello visivo, non quello sostanziale, i suoi personaggi non sono caratterizzati in modo standard, ma sono figure tratte da un particolare immaginario condiviso e poi riadattate dinconseguenza. Non c’è indagine intima, ma trasmissione sullo schermo nel modo più diretto possibile; lo stesso discorso vale per il sonoro, elaborato, scomposto, con cui Krstić insiste, profittando di un ottimo Tibor Carl, per andare a concentrarsi sull’esperienza visiva, più che altro.

Sì, un divertissement, dunque, che aspira a stupire e intrattenere nella più elegante delle accezioni, cimentandosi in una serie di sequenze sempre più elaborate registicamente che mettono in mostra emersioni da un mondo di possibilità, una nuova lente, cioè macchina, con cui guardare quell’insieme confusionario di idee che precede il lavoro artistico. La punta (auto)ironica verso la psicologia e, soprattutto, l’arte moderna, unita all’intenso lavoro di sovrapposizione tra i diversi stili raffigurativi e situazioni che ne ricordano alcune caratteristiche, in una cifra registica costantemente mutevole e capace di sorprendere, fanno da ciliegina sulla torta per un film riuscito perfettamente per quanto concerne il proprio scopo, forse un sufficientemente compiaciuto in alcuni frangenti, con tutti i crismi necessari a costituire un’interessante novità oltre che un’esperienza non così scontata trattabile però anche per il panorama delle sale moderne, pure più mainstream.