Yoav è un ragazzo israeliano fuggito dal suo paese per non soccombere alle sue dure leggi di pervasiva militarizzazione. Si rifugia in Francia, fiducioso di trovare asilo alle proprie aspirazioni libertarie, ma non tutto è così dorato nella terra della fratellanza e dell’uguaglianza.
Un ragazzo si introduce in un appartamento vuoto di Parigi, va a fare la doccia, saltellando comicamente nel suo sacco a pelo per conservare un’impressione di calore all’interno di un luogo gelido e deserto, ma basta un attimo e qualcuno (un fantasma, i servizi segreti, un clochard?…) gli ruba le povere cose che era riuscito a portarsi dietro nella sua rocambolesca fuga da Israele…inizia così una lotta ferina per la sopravvivenza mentale, con il freddo che lo porta a diventare un nuovo Marat in una gelida vasca, una lingua da imparare al più presto con ossessive sessioni mnemoniche e un mondo oltralpino da inquadrare e comprendere in fretta al di là degli stereotipi e dei miti di libertà egualitaria.
Nadav Lapid, 44enne regista di Tel Aviv, prende d’assalto il concorso berlinese e lo spettatore con un tour de force cinetico-linguistico che ridefinisce a forza di spintoni e ossessivi mantra sinonimici i concetti di identità nazionale, immedesimazione linguistica, attaccamento alla propria terra, critica antigovernativa, diritti umani e civili tout court. I sinonimi del titolo sono in primo luogo le gragnuole di termini che il protagonista Yoav ripete ossessivamente per imparare, agguantare, addentare, addestrare l’idioma francese al fine di sentirsi parte integrante e parlante ben accetto nella terra d’oltralpe. Per lui il francese non è solo lingua di cultura par excellence, mediatrice di tradizioni cinematografiche e rivoluzionarie, ma anche ipotetico porto sicuro d’approdo nel viaggio intrapreso lontano dalla sua lingua nativa, quell’ebraico che egli rifiuta e fa coincidere totalmente con l’identità politica e l’aggressività territoriale del governo israeliano. Non è un caso che in alcune lingue antiche “popolo” e “lingua” siano sinonimi.
L’idioma gallico diventa così croce e delizia, arma di autodefinizione, involucro un po’ scomodo e salvezza dal mutismo cui sarebbe costretto un disertore linguistico in stato di ostinato rigetto di tutti i riferimenti basilari della propria patria. Idioma, famiglia, servizio militare, territorio: tutto è ripudiato in questo militante, roboante, travolgente pamphlet ironico-atletico sull’immedesimazione fonetica con la terra d’accoglienza e sulla ricerca ansiosa di un nuovo vocabolario. La lingua come modello antropologico, strumento identificativo, punto di riferimento-chiave, esempio di accoglienza e dichiarazione d’amore: le fughe rocambolesche, le tirate verbali, le performances fisiche di Yoav (attraverso il corpo aitante e generosamente esibito di Tom Mercier) sono la via di realizzazione pluridimensionale della sua ricerca di una nuova identità.
Il linguaggio, questo sconosciuto. Il linguaggio verbale e filmico, mezzo espressivo di rottura e beffardo richiamo alle tradizioni un tempo (o forse eternamente?) rivoluzionarie. Già altri recensori si sono soffermati sulla pletora di riferimenti/citazioni ai classici della nouvelle vague o delle sue post-elaborazioni storiche (da Godard si passa a Bertolucci, poi a tutti i possibili “free cinema” del mondo occidentale, ma forse anche certi Carax e Audiard iper-movimentati…), per cui non ci si soffermerà di nuovo sull’argomento. Ma che per Lapid sia una questione di linguaggio in tutti i sensi è innegabile: invece che “adieu au langage”, “bienvenue par le langage”. La rottura delle convenzioni drammaturgiche, l’accumulazione modulare di scene, le citazioni decontestualizzate, le esplosioni inattese di violenza, le perlustrazioni sghembe degli interni, le “appropriazioni indebite” del potere narrativo (Yoav che “dona” e poi si riprende le sue storie, in quanto ne vuole rimanere unico gestore assoluto) sono tutti strumenti di ri-semantizzazione centrifuga della mera vicenda (in parte) autobiografica dell’autore e grimaldello decostruttivo per le possibili esegesi politiche nella direzione del capovolgimento.
Il capovolgimento, la conversione ad U nell’autostrada perduta (e ritrovata) delle nouvelles vagues, il distacco dai meccanismi ritriti dell’omaggio fine a se stesso. Lapid e il suo esecutore atletico, alter-ego a metà fra il modello da sfilata e l’indossatore di citazioni, si muovono lungo una sfilza di prove ad ostacoli, di esami a punti, per verificare cosa sia più importante, la “langue” o la “parole”, il sistema codificato e teoricamente valido in senso universale o i meandri nascosti e truffaldini della sua applicazione concreta, anche violenta e autonegante, se serve. Con le sue litanie di vocaboli snocciolate fra una performance e la seguente è come se Yoav si interrogasse sulla predominanza dell’asse della sintagmaticità verticale (le innumerevoli interscambiabilità sinonimiche) rispetto a quello della paradigmaticità, ovvero la catena di regole strutturali che in orizzontale assicurano la tenuta del linguaggio e il passaggio di idee, informazioni, pensieri. In questo mancato incontro fra regole del linguaggio e loro interpretazione sta lo scacco irrimediabile di Yoav, ma anche il rinnovamento con cui Lapid resuscita senza scimmiottamenti e con clamorosa sfacciataggine decenni di sperimentazioni e interrogazioni cinematografiche.
I saggi linguistici con cui Yoav prova agli altri e a se stesso di essere degno di indossare una nuova identità nazionale, i provini artistici e le interviste di lavoro tramutate ludicamente in lotte con gli stereotipi sono appunto esplosioni colorate su un piano cartesiano, tentativi di sintassi cinephile decostruita e beffarda, luoghi di scontro violento fra sintagmi e paradigmi: l’umiliante incontro con il fotografo-voyeur che lo costringe ad usare l’odiata lingua ebraica mentre si auto-titilla l’ano, gli incontri con i connazionali in ambasciata e in ufficio che si trasformano in provocatori e surreali corpo-a-corpo con una politica culturale che capisce solo il linguaggio della forza, sono tutti estremi tentativi agonistici e angosciati di far comunicare corpo e favella, codice e prassi, spazi chiusi e superamenti di confini.
È un film coreografico, che se può forse far venire in mente alcune “scene-madri” con Denis Lavant, incastra anche la sua fisicità cromatica (condotta sul cappotto-feticcio color senape di Yoav, portato in giro per Parigi come una nuova uniforme) fra la surrealtà di un Suleiman e la danza sarcastica sulla fine del mondo di un Samuel Maoz. Ma purtroppo, per quanto si cerchi di cambiare pelle, di lasciarsi alle spalle ricordi-eredità-tare familiari, si finisce sempre in nuovi uniformi, in corazze interne ed esterne che neanche la sottile superficie di una nuova lingua possono scalfire.
Penetrante, scarnificato (il corpo spesso nudo di Mercier non è solo compiacimento ma coraggio di spogliarsi fino all’osso, tentativo fallito di liberarsi dalle sovrastrutture), forse troppo pessimistico. Brillano qua e là spiragli di speranza, ma è in fondo plausibile il doppio gancio al mento che Lapid sferra con sottofinale e finale: Yoav esperisce l’impossibilità di trovare l’Eden linguistico, anche in quella terra francese massimo ricettacolo di libertà attingibili in questo mondo (i test per l’acquisizione della cittadinanza sono anch’essi sviliti dallo svuotamento di senso, dalla ripetizione di clichés, così che anche il francese diventa “lingua morta”) ed è costretto atavicamente ad usare anche la nuova lingua acquisita come arma, quando si scaglia brutalmente contro i musicisti per lui troppo poco battaglieri; ma d’altro canto il suo urlo finale (“Non sapete che fortuna sia essere francesi!”) con il tentativo disperato di sfondamento della porta chiusa dimostra con amarezza l’impossibilità di interiorizzare fino in fondo la “madre-lingua”, perché la “madre-patria” ha un imprinting incancellabile e la matrigna europea non lascia mai davvero entrare nel suo grembo caldo e rassicurante.