Cecoslovacchia, estate 1937. La giovane repubblica centreuropea pare vivere un momento di grazia, nonostante siano ormai alle porte il suo smembramento con gli accordi di Monaco e, poi, la Seconda guerra mondiale. Una grossa azienda proiettata verso il futuro con la sua sperimentale produzione di fibre tessili sintetiche si sta espandendo anche tra i monti Tatra, con l’idea utopica di costruire un’avvenieristica ‘città-fabbrica’. I piani del rampante direttore dello stabilimento locale si complicano quando, a pochi giorni dall’attesa visita del patron dell’azienda, nel territorio della fabbrica viene rinvenuto un feto ermafrodita nato morto. Tra sospetti di sabotaggio e interventi del controspionaggio cecoslovacco antisovietico, Helena, l’energica moglie del direttore, incinta all’ottavo mese, decide di intraprendere una propria personale indagine, che la condurrà a scoprire la disforia sessuale di un giovane operaio…
Non poteva mancare, nel concorso principale del Festival di Karlovy Vary, il lungometraggio di un giovane regista ceco: Matěj Chlupáček (classe 1994) aveva già debuttato ben dieci anni fa, appena maggiorenne, come più giovane regista europeo con il suo “Touchless” (Bez doteku). La storia alla David Lynch sulle allucinazioni di una ragazza concupita dal padre era tra l’altro approdata anche al Festival Nuovo Cinema Europa di Genova nel 2014. Dopo un’esperienza di discreto successo con serie e miniserie televisive, Chlupáček ha deciso di ritornare al grande schermo con un progetto sicuramente più poderoso e ambizioso, tra la ricostruzione storica di ampio respiro, il noir e il dramma psicologico cui, comunque, non è estranea la tematica dell’identità sessuale in filigrana anche al lavoro del 2013.
E non poteva mancare nemmeno, nel ruolo principale, la 33enne Eliška Křenková, attualmente forse l’attrice ceca più richiesta, presente, negli ultimi anni, ad ogni edizione del Festival di Karlovy Vary con uno o più film, come protagonista o comprimaria. Qui ha ottenuto sicuramente il ruolo finora più importante e complesso della sua brillante carriera: Helena è sempre in scena, ed è un personaggio quanto mai sfaccettato. Da un lato è un’impeccabile figura femminile positiva: è indipendente e intraprendente, soprattutto per il periodo storico in cui vive; è generosa e ha un innato senso della giustizia; è progressista e il suo sogno è aprire una clinica per gli operai dello stabilimento che il marito dirige, dove già cura i corsi serali per le dipendenti donne. Allo stesso tempo, però, è una privilegiata (proviene da un’agiata famiglia borghese che le ha spianato la strada), a tratti presuntuosa e arrogante, soprattutto quando, teoricamente con l’idea di fare del bene, decide imperiosamente del destino altrui, mettendosi volente o nolente in una posizione di dominio: sarà l’ermafrodita Saša, nonostante la sua estrazione sociale umile e la sua scarsa istruzione, a farle capire di voler disporre da solo della propria vita (e soprattutto, di voler stabilire da solo la propria identità di genere, a prescindere dalle peculiarità del suo corpo). Difficilmente, comunque, Helena, nonostante i suoi aneliti femministi all’emancipazione, alla fine potrà realizzare il suo progetto di trasferirsi da sola, incinta, a Zlin: le didascalie che compaiono sullo schermo relativamente ai 5 giorni di una trama cronologicamente compatta, e che fungono da peculiare ‘conto alla rovescia’ per un evento che non vedremo, ci dicono che proprio nel giorno collocato al termine del film partorirà, anche se la scena del parto, pur attesa fino alla comparsa dei titoli di coda, è esclusa dal film. Ad ogni modo, probabilmente Helena resterà col marito insieme al neonato – e meno di due anni dopo scoppierà la guerra.
Il contesto storico, ovviamente, fa la sua parte ed è altrettanto ambiguo: siamo nella Cecoslovacchia repubblicana nata sulle ceneri dell’Impero asburgico al termine della prima guerra mondiale e caratterizzata, nel breve ventennio della sua esistenza (1918-1938) da una notevole vivacità politica, culturale, economica, perlomeno per le classi sociali dominanti. Il titolo originale ceco del film significa ‘Alba’ e, se noi del pubblico non sapessimo che quel paese avrebbe presto cessato di esistere a causa delle mire espansionistiche di Hitler e, dopo la guerra, sarebbe ricomparso nelle sue nuove vesti filosovietiche, tutto sembrerebbe preludere all’inizio di una nuova era all’insegna del liberalismo politico e del capitalismo economico. D’altronde, anche l’agente del controspionaggio cecoslovacco antisovietico nel film è ottimista e convinto che Hitler, da “statista razionale”, non scatenerà un conflitto su larga scala, e le tensioni in corso si risolveranno da sé in un paio d’anni, cosicché il mondo “sarà più sicuro”.
Anche i vertici dell’azienda al centro dell’azione sembrano non dubitare di un futuro di successi e di irrefrenabile progresso, che li porterà a spingersi sin sugli incontaminati monti Tatra, qui mostrati in tutto il loro maestoso e atavico splendore. Peraltro, al di là della vaga somiglianza tra il gran boss (figura quasi archetipica, non viene nemmeno mai chiamato per nome di battesimo) e Donald Trump, non è difficile riconoscere nell’azienda del film il vero e proprio impero della famiglia Bata, forse il marchio ceco tuttora più noto a livello mondiale. Proprio nell’interregno tra le due guerre i Bata iniziarono a coltivare l’idea della creazione di innovativi centri urbani gravitanti attorno alla fabbrica: il loro stabilimento nella città di Zlin, visitabile anche oggi, fu la prima incarnazione di tale utopia, con soluzioni architettoniche davvero all’avanguardia, oltre che di grande valore estetico. Allo stesso tempo, non può sfuggire l’impostazione essenzialmente patriarcale del mondo della fabbrica, con una rigida divisione tra i due sessi e le loro occupazioni. Un simile approccio è ovviamente una prosecuzione dei pregiudizi che vigono nei salotti borghesi dei dirigenti: Helena, nonostante la sua istruzione e il suo carattere forte, nella testa di tutti rimane sempre e solo ‘paní ředitelová’, la ‘signora moglie del direttore’, ritenuta a maggior ragione incapace di cavarsela autonomamente durante la sua gravidanza. Sicuramente un ambiente del genere non è affatto pronto a scontrarsi con una questione come l’ermafroditismo (anche se, come ha detto in un’intervista lo sceneggiatore del film, nei manuali di medicina dell’epoca simili particolarità dell’apparato riproduttivo, molto più diffuse in natura di quanto si potrebbe credere, venivano già scrupolosamente trattate). L’identità ambigua dell’operaio di origine contadina Saša (interpretato da Richard Langdon, primo attore cecoslovacco dichiaratamente transgender) difficilmente potrà dunque essere discussa alla luce del sole.
Il film, che procede con un incedere serrato e con il giusto crescendo della tensione, senza disdegnare alcuni tocchi da dramma storico hollywoodiano (la colonna sonora extradiegetica – a cura di Simon Goff, già vincitore del Grammy per le musiche di “Joker” e della serie “Chernobyl” – volta a sottolineare il pathos di alcuni momenti, le riprese ad effetto dei monti Tatra a volo d’uccello mentre la macchina di Helena sfreccia tra i campi, le scene madri della resa dei conti rigorosamente sotto la pioggia) è stato girato in 35mm, per conferire all’atmosfera generale quel sapore ‘analogico’ che si confà a una ricostruzione d’epoca. Non mancano però procedimenti vicini più all’oggi che gli anni ’30, come la macchina da presa a spalla che segue i personaggi, Helena in primis. L’intenzione dichiarata del regista è appunto gettare un ponte tra gli anni ’30 e il nostro presente, per mostrare da un lato la possibile imminenza, senza che ce ne rendiamo davvero conto, di scosse telluriche che cambieranno in profondità il mondo cui siamo abituati; dall’altro, l’urgenza di sciogliere nodi sempre irrisolti, ieri come oggi: il ‘colonialismo interno’ in nome di uno sviluppo industriale sfrenato a spese della tutela dell’ambiente persino negli angoli più incontaminati del pianeta (con la conseguente dialettica città-campagna); la questione femminile; la scelta dell’orientamento sessuale e di genere e il suo conflitto con una mentalità rigida e apparentemente immutabile, complici i precetti religiosi.
Non a caso, il titolo inglese scelto per la distribuzione internazionale del film è una citazione del famoso saggio di Bruno Latour Non siamo mai stati moderni (1991), sull’artificioso e illusorio dualismo natura/società su cui si basa ciò che, in Occidente, è stato chiamato ‘modernità’, e che pare anche essere il cardine della Cecoslovacchia del 1937 e del mondo globalizzato di ora: se allora non si è riusciti a metterlo in discussione, forse è il momento di farlo adesso. Proprio la volontà di dare voce a tutte queste problematiche lascia a fine visione l’impressione che sia stata messa sin troppa carne al fuoco, senza dare uno sviluppo adeguato a ciascuna di esse. Ma senz’altro questo secondo lungometraggio di Chlupáček, che già in autunno sarà distribuito in sala in Repubblica Ceca, ha il giusto fascino per aggiudicarsi ottime possibilità di conquistare le platee non solo ‘in casa’, ma anche all’estero.