Nel luglio del 2014 nel Donbass ucraino stava iniziando quel lungo conflitto le cui conseguenze, purtroppo, viviamo ancora oggi, e in misura anche accentuata dopo l’invasione russa su larga scala avviata da Putin nel febbraio 2022, di cui gli eventi di quella zona orientale dell’Europa furono una sorta di triste e drammatico preludio. In quel mese, in particolare, avvenne una delle tragedie più inaspettate, che aprirono sia il fronte geografico dei paesi emotivamente coinvolti, sia gli occhi di chi era disposto a vedere la realtà e a non credere alla propaganda del Cremlino: l’abbattimento di un aereo civile della Malaysia Airlines provocò vittime di diverse nazionalità, e diede il via ad una complessa indagine che ultimamente ha portato a svelare uno dei più nefasti crimini compiuti delle cosiddette “milizie separatiste” filorusse.
Roman Ljubyj è un documentarista di Kyiv, che si è formato, come molti suoi giovani colleghi, attorno all’esperienza del Majdan del 2013-2014, quando diversi studenti di cinema e osservatori della realtà ucraina si riunirono nel gruppo indipendente “Babylon 13” per fotografare in presa diretta la cosiddetta “Rivoluzione della Dignità” che esautorò il presidente filo-cremliniano Janukovyc, gruppo di reporter che ha poi visto crescere diversi autori di buon valore (fra gli altri anche uno dei produttori di questo film, Volodymyr Tychyj). Il suo film precedente (War Note, 2020) era composto di riprese amatoriali fatte con i telefonini dai soldati ucraini in guerra, ma con questo suo nuovo lavoro (che ha iniziato il suo percorso festivaliero a febbraio di quest’anno alla Berlinale) Ljubyj fa un passo avanti e complica significativamente la struttura del testo narrativo, visivo e interpretativo. Per cercare di ricostruire gli avvenimenti di quell’orribile abbattimento di un aereo civile (scambiato originariamente dai separatisti per velivolo dei nemici ucraini) il regista di avvale di un approccio “poli-strumentale”: si va dalle interviste ai parenti delle vittime ai servizi manipolatori dei canali televisivi russi, dalle dichiarazioni degli ufficiali che hanno seguito il caso per un tribunale olandese (buona parte delle vittime erano di quel paese) ai materiali tratti dai social network e alle intercettazioni delle truppe separatiste, che in un primo momento esultarono pubblicamente per l’obiettivo centrato, salvo poi negare qualsiasi coinvolgimento diretto, non appena si seppe la verità sulla morte di quasi trecento incolpevoli civili. A “coronare” il tutto, creando una cornice quasi tragicomica, il film inizia ed è poi punteggiato da alcuni brani tratti da un vecchio documentario di propaganda militare sovietica, che tesseva le lodi del sistema missilistico BUK al momento della sua prima comparsa, proprio quello che nel luglio del 2014 colpì l’aereo di linea.
Ljubyj scommette sulla complessa articolazione di questi materiali eterogenei, non limitandosi al classico compitino di ricostruzione basato sulle interviste; dobbiamo ammettere che la scommessa ci pare vinta, in quanto è proprio il metodo di contrapposizione dei punti di vista e degli statuti di credibilità delle varie fonti a far scaturire quella scintilla di “Verità” investigativa, che si applica non solo agli eventi in questione, ma soprattutto in merito al funzionamento della propaganda russa. Attraverso una sorta di rielaborazione del procedimento ejzenstejniano delle “attrazioni”, vengono per esempio giustapposte e contrapposte dichiarazioni di giubilo per l’abbattimento di quello che nei primi momenti sembrava essere un obiettivo militare (con relative attestazioni di merito e valore per gli “sparatori”) ad improvvisi cambi di marcia con i quali le facce di bronzo della TV filo-cremliniana addossano la responsabilità ai militari ucraini, non appena viene fuori la dimensione del pasticcio che era stato in realtà causato…
Altro procedimento creativo particolarmente ingegnoso è quello con il quale vengono utilizzate modalità metonimico-liriche per raffigurare alcuni momenti ricostruiti della vicenda per i quali manca la documentazione diretta (come la preparazione al lancio del missile da parte degli ancora ignari soldati, o i mezzi coercitivi presumibilmente usati sulla popolazione locale per silenziare le eventuali testimonianze dirette): in queste occasioni, infatti, ci vediamo scorrere davanti delle scene simili a tragici balletti in bianco e nero, in cui figure stilizzate di civili e soldati, spesso mascherati nella loro crudele identità, si muovono in uno spazio immaginario, che è ricostruito non per perseguire finalità filologiche di verosimiglianza, ma quasi per donare un tono teatrale, sovradimensionale, quasi extra-temporale ai fatti accaduti. A sottolineare la lirica tragicità del film, ricordiamo che le “farfalle” del titolo sono i piccoli oggetti a forma di alucce di cui sono riempiti i micidiali BUK russi, simbolo mortifero di un volo che invece che danza cromatica di insetti diventa portatore di distruzione.
Lungi dallo sminuire la tragicità del dolore di quanti sono stati direttamente colpiti da questo “errore con vittime collaterali”, questo Farfalle di ferro fissa e in un certo senso, al contempo, sublima uno degli episodi più assurdi dell’invasione russa (ricordiamolo, lo stesso che ha ispirato Klondike, di Maryna Er Gorbach, candidato ucraino all’Oscar), ampliandone le opzioni di lettura, staccandosi dalla mera fattualità del reportage, e restituendo con tutti i suoi addentellati e le sue contraddizioni l’assurdità della guerra in generale, di questa specifica invasione in particolare, ma soprattutto l’inconcepibile morte di trecento persone uccise a causa di una sorta di gioco al bersaglio condotto da assassini minus habens.