In un bellissimo articolo, Roberto Minervini narra con dovizia di dettagli il percorso e le ragioni che l’hanno spinto a girare What You Gonna Do When The World’s On Fire?. Non è un pezzo necessario per capire il suo documentario, che si esprime benissimo anche solo con le immagini e i discorsi dei protagonisti ripresi, ma è utile da leggere a posteriori, con la mente che ancora gira per le strade di New Orleans, insieme a Judy Hill, alle rinate Black Panthers – anzi, New Black Panthers Party for Self Defense -, e Ronaldo e Titus.
Minervini riesce a fotografare, in maniera asciutta e priva di didascalismi inutili, uno spaccato dell’America nera nel 2017, l’America nera abbandonata dalle istituzioni (il sempre compianto Obama incluso), l’America nera che è costretta a rifondare le Black Panthers a causa delle troppe morti violente per mano della polizia e del KKK (il KKK. Nel 2017).
Minervini gira nel 7th Ward di New Orleans, in un quartiere a maggioranza (anzi, totalità) nera che non si è mai ripreso dai danni dell’uragano Katrina del 2005. Sono tre i nuclei narrativi che si alternano sullo schermo. Seguiamo le vicende di Titus, di anni nove, e suo fratello di poco maggiore Ronaldo, che vivono con la loro madre e che devono rientrare a casa al massimo alle 7 di sera o quando si accendono i lampioni perché non più tardi di due giorni addietro hanno ammazzato un ragazzino all’angolo della strada, in una sparatoria, così come era successo la settimana prima. Forse lo conoscevano, o forse no, quello che conta è che non stiano fuori quando inizia a fare buio, perché potrebbero non rientrare mai più, questo è quello che la loro madre ci tiene a fargli capire. Ronaldo insegna a Titus a fare a botte, così potrà difendersi all’occorrenza, anche se, specifica, ormai nessuno fa più a pugni, adesso si usano le pistole, ti sparano un colpo e via. Ma dato che Titus ha solo nove anni ed è difficile che venga qualcuno a sparargli, ha ancora un po’ di tempo per doversi difendere solo a cazzotti.
Judy Hill aveva un bar, è riuscita a tirarlo su dopo l’uragano, ma adesso è in difficoltà economiche e dovrà chiuderlo. È anche probabile che sua madre, Beverly, dovrà cambiare casa, perché ora la gentrificazione sta arrivando anche al 7th Ward, e i bianchi stanno espropriando le case. Il passato di Judy comprende molteplici abusi da bambina e la dipendenza da crack. È riuscita a venirne fuori, per fortuna, e le esperienze l’hanno segnata, come cerca di spiegare a suo cugino, recentemente uscito dal carcere ancora dipendente da crack e che non sa nemmeno dove sia sepolta sua madre dato che non gli hanno concesso un permesso di uscita nemmeno per il funerale. Judy non parla, predica. I suoi non sono discorsi, sono sermoni degni di un pastore, sono inni alla sua forza di volontà e a uno spirito indomito, nonostante tutto le sia stato contro.
E infine, il movimento delle Black Panthers. Assistiamo alle loro proteste e i loro statuti, le loro richieste legittime ma che sono servite a farli registrare come gruppo terrorista (a differenza del KKK), la loro presenza nella comunità, i loro tentativi di far sì che le morti di Alton Sterling e degli altri non ultimo un ragazzo decapitato che l’FBI ha archiviato come suicidio non passino sotto silenzio. L’anima del movimento è Krystal Muhammad, veterana e incorruttibile, che bussa porta a porta per indagare sull’omicidio di cui sopra, tra i tanti, e per portare conforto agli abitanti di un quartiere che non ha nessuna fiducia nelle istituzioni, ed è pienamente giustificato in questa posizione. Incredibile che Minervini sia riuscito a ottenere la loro fiducia al punto da convincerli di farsi riprendere, e da un regista bianco per di più, quindi parte dell’élite, a priori. Eppure, c’è riuscito, li ha ripresi – facendosi pure sparare addosso dalla polizia nel mentre – e punta una luce su loro, sperando che questa non si spenga troppo in fretta.
Paradossalmente, a pochi giorni dalla proiezione di questo documentario, in sala è arrivato Wiseman, altro grande sguardo sull’America contemporanea, che ci ha portati a Monrovia, Indiana. Paese di mille e poco più anime, prevalentemente bianche (si è discusso su quante persone di colore siano state inquadrate in 143 minuti di riprese, e i numeri oscillano tra 3 e 5), cristiano e ovviamente armaiolo, a economia prevalentemente contadina. Un paesino che pare uscito da un episodio di Una Mamma per Amica, o qualsivoglia serie analoga, in cui tutti conoscono tutti, ci si trova al diner per commentare le vicende del giorno, i sermoni del pastore si rivolgono a una comunità di “beloved” che cita uno per uno chiamandoli per nome, come si usa fare tra amici. Buone probabilità che tutti questi “beloved” abbiano votato Trump.
La dicotomia di queste due America è spaventosa; “voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case”, verrebbe da dire agli abitanti di Monrovia, ma che ne sapete voi di quello che succede a New Orleans? Voi che trovate un pasto caldo tutte le sere, che cosa farete quando il mondo sarà in fiamme?