La Biennale College 2018 ha avuto una semina da grande azienda agricola industrializzata (lo dimostrano la quantità e la varietà di workshop che sono stati aperti al pubblico e la mole delle richieste pervenute al comitato operativo della sezione), ma non è stata ripagata da un raccolto abbondante, apponendo la firma definitiva sul documento che conferma che anche quest’anno la giovane sezione parallela non farà parlare troppo di sé. Dopo Yuva e Deva, è il turno del Bel Paese, che in sua rappresentanza non può contare su altro se non Zen sul ghiaccio sottile, un bel passo indietro rispetto a Beautiful things di Ferrero. Facile esserlo, vista la qualità fenomenale dimostrata da quest’ultimo film, ma la distanza in questo caso è molta.
Senza esagerare sin dalle prime righe, però , va detto che Zen sul ghiaccio sottile è un film ben piantato sulle gambe, compatto per come restituisce quanto promette, ma il fattaccio è che promette pochissimo fin dall’inizio. Una storia di formazione, l’ennesima, la seconda in questa categoria (su tre), che in questo caso ruota attorno al passaggio liminale della scoperta e dell’accettazione della propria identità di genere. Niente di sorprendente, conoscendo il percorso della regista, quella Margherita Ferri fattasi già conoscere con Odio il rosa, il culmine di una serie di piccoli documentari che vertevano sulla stessa sfera concettuale. Zen é il soprannome di Maia, sedicenne giunta alla soglia di uno dei momenti più segnanti della propria esistenza, e il suo ghiaccio sottile è quello del palaghiaccio dove spegne la mente praticando hockey, sport che al contempo però le frutta anche il disprezzo dei coetanei. Maia, da maschiaccio in perenne pubblico ludibrio, inizierà a fare passi avanti grazie all’amicizia di Vanessa, reginetta da manuale ma pure lei in crisi.
Dunque, Zen sul ghiaccio sottile è la terza vacca magra della selezione degli esordienti finanziati da Venezia perché non riesce a lavorare nel senso del cinema. Facendola breve, similmente alle altre regie della Ferri, non andiamo oltre la disamina di una narrazione illustrata a scopi pedagogici. Il pensiero di Ferri è di bassa lega, ridondante e paternalistico: non è tanto la sua impostazione o il suo colore politico a gravare su questo esordio, quanto la vena polemica di piccolissimo cabotaggio che dà corpo al fil rouge che tiene assieme le varie situazioni della pellicola (essa si articola per episodi abbastanza delineati). Tale modo di pensare – e di conseguenza di guardare all’arte e di fare cinema – è di un didascalismo aberrante: la verità assoluta di cui la regista è araldo va divulgata ai poveri sciocchi attraverso forme che questi possano comprendere. Una concezione brutale dell’arte e del suo ruolo, un adagiarsi sull’utilitaristico dell’autorialità; il cinema non ha niente a che vedere con una forma mentis così ignorante.
La storiella esemplificativa alla De Amicis si presto snervante, essendo caricata per stereotipi “al contrario”. Presupponendo l’esistenza di un gregge ignorante, fa leva sui medesimi topoi che ci si aspetterebbe dal personaggio negativo di una qualche pubblicità progresso. Sinceramente chi scrive pensava che quel tipo di visione estremamente liberale e infognata nel culto del pragmatismo per cui il male supremo è l’ignoranza e non esiste altro mondo al di fuori di quello dell’individuo (per cui ogni suo tratto è da ricondurre meccanicamente allo stesso, che si parli di colpe o meriti) avesse smesso di essere considerata valida all’interno di un processo conoscitivo ben prima (diciamo nell’Atena socratica). Questa immaturità di fondo, se viene unita a un comparto tecnico sì funzionale ma in ogni caso fatto con lo stampino, genera un’opera infantile, immagine di quel modo di ragionare che lungi dal costituirsi come pensiero autonomo ha l’unico scopo di formare un’identità ben precisa, e lo fa con il più collaudato degli espedienti, quello della creazione di un avversario che per contrasto determina un fazione, perché ormai l’ideologia (così Ferri la definirebbe) fa il verso alle curve.
Zen sul ghiaccio sottile è poco più che semplice oggetto su supporto digitale, non è abbastanza per essere considerato un film, a malapena raggiunge il livello dei corti sperimentali studenteschi, visto il grezzo lavoro fatto su alcuni elementi del paesaggio emotivo, nemmeno fosse un giocattolo nuovo scoperto di recente da parte della regista. Il terreno scivoloso e pericolante su cui si erge questa tipologia di opere non è facile da calcare con naturalezza (specie perché nessuno insiste in termini così elementari) ma basta guardare – se si passa la strategia del confronto – a veri film come Carol, The handmaiden o Lei mi odia per vedere come Ferri dietro a una macchina da presa sia irresolubilmente fuori luogo.