Terzo documentario dopo La guerra dei vulcani (2011) – presentato anch’esso al festival in occasione della 69esima edizione – e Napoli ’44 (2016), il napoletano Francesco Patierno prosegue la riflessione iniziata nella precedente fatica, arricchendo l’excursus storico-sociale sulla sua città natale ma senza cercare di renderlo più accattivante, limitandosi a un resoconto nozionistico e tedioso.

Riprendendo le fila là dove finiva Napoli ’44, Camorra – presentato nella sezione Sconfini – parte dalla diffusione del contrabbando negli anni Sessanta per poi arrivare fino ai Novanta, servendosi del materiale – anche inedito – delle teche Rai per ricostruire nascita, crescita e maturità dell’organizzazione criminale che oggi conosciamo, a partire dall’agiografia di uno dei suoi padri fondatori: Raffaele Cutolo, tramite tra le istituzioni e la criminalità organizzata.

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Raffaele Cutolo, detto Vangelo

Ancora una volta film di montaggio, in Camorra le immagini di repertorio sono accompagnate dalla colonna sonora e dal voice over della cantautrice partenopea Meg, che hanno il merito di rendere più interessanti i 70 minuti di documentario. Ancor più che nel film del 2016, l’impressione che si ha durante la visione è di già detto, che fortunatamente non si accompagna al già visto. Il criterio con cui è operata la selezione nella prima parte sembra il sensazionalismo, con interviste shock a ragazzini di 12-13 anni che snocciolano pacatamente le loro malefatte. Dopo la paranza dei bambini il fuoco si sposta sul contrabbando, vero motore dell’industria criminale in quanto unica via di salvezza per gli abitanti dalla disoccupazione e povertà endemiche.

Si introduce quindi la distinzione tra la “vecchia” camorra degli uomini d’onore – che ormai sopravvive solo nei melodrammi dei teatri popolari – e quella “nuova” dei signori della droga dei centri urbani, che spodestarono i boss dell’entroterra. E il capo dei capi era proprio il Cutolo, abile dissimulatore e negoziatore della propria immagine pubblica. Da qui in poi – ma anche prima, a dirla tutta – è Storia: il sequestro brigatista del democristiano Ciro Cirillo, assessore ai lavori pubblici della Regione Campania, e l’inizio dei rapporti Stato-mafia nella prospettiva di negoziarne la liberazione.

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Di interesse magari per un pubblico straniero estraneo alla Storia della nostra Repubblica, Camorra non ha un vero punto di vista da proporre: il punto di partenza e quello di arrivo sono meramente cronologici, quasi che Patierno avesse dimenticato di render conto del suo pomposo proclama in apertura sulla natura della vita a Napoli, intesa come “assuefazione al crimine”. Se la radice dei problemi della città è sociale – e potremmo già da subito fare a meno di quel “se” –, allora non si capisce come un mosaico di spezzoni di girato senza commentario possa far luce sulla questione.

Il documentario finisce così per venire risucchiato dal buco nero della tendenza partenopeo-centrica, che con prodotti di varie forme e contenuti – serie televisive e fiction, film d’autore, libri d’inchiesta, musica – rimanda da qualche tempo a questa parte la stessa, identica immagine di Napoli, di quel «paradiso abitato da diavoli» in cui il degrado e il crimine sono passati da minarne il fascino a promuoverlo, diventando quasi un po’ pop. Senza implicare che questa fosse l’intenzione dell’autore sin dal principio, fatto sta che tale è l’immaginario che alimenta.