“Climax” significa “scala”. Una figura retorica che restituisce un crescere in intensità e in potenza. Ma in Climax di Gaspar Noé non v’è nulla di tutto questo, non in modo convenzionale almeno. Anzi, la narrazione inizia un’altra volta, dopo Irréversible, dalla fine. Presentato nella Quinzaine des réalisateurs a Cannes nel 2018, è passato sostanzialmente inosservato – forse perché il ruolo di film-scandalo già era coperto dal capolavoro The house that Jack built di von Trier e i media quando si tratta del festival francese tendono purtroppo a diventare piuttosto macchiettistici -, al punto che le poche speranze di vederlo in sala sono state prosciugate sin da subito, ma ciò non toglie che siamo di fronte a un altro gioiellino di Noé.
Se, appunto, in fase di sceneggiatura, per quanto riguarda soprattutto architettura “narrativa” e l’ampio spazio di manovra lasciato agli interpreti, Climax sembra ricalcare Irréversible, è perché Noé riprende a far respirare le stesse ambizioni al suo nuovo film, riscoprendosi più compilativo che sperimentatore, in buona parte. In verità se si guarda a Climax una volta smaltita la sbornia audiovisiva non si può che scorgere lo stesso spirito di Love, l’estetizzazione pura come espressione violenta di qualcosa di indefinibile e insondabile con i mezzi classici della razionalismo – punto cruciale evidenziato soprattutto nella prima parte del film – primeggia ed esplode debordante nell’epilogo, ma fanno capolino nella velocissima ora e mezza di durata parecchi spunti di natura filosofica, sociologica, politica, morale, sino a trasformare Climax in un lungo gioco di scatole di cinesi.
Abbiamo virgolettato “narrativa” perché come al solito la dimensione dell’intreccio nel cinema di Noé è un canovaccio, nulla più: 1996, la compagnia di ballo protagonista si chiude in un capannone isolato in una foresta per provare tre giorni senza distrazioni prima di partire per una tournée in America, ma – sembra – una correzione a base di LSD nella sangria finisce per scatenare un’isteria di massa che si conclude nel peggiore dei modi. All’introduzione rigidissima, simmetrica e – oseremmo – geometrica nella sua fissità che riempie alla perfezione lo spazio dello scope, segue una costruzione in tre parti: il balletto, la festa con i siparietti singoli, e infine il baccanale. Inizia tutto da una vecchia televisione che trasmette tranci di interviste del corpo di ballo, con le loro aspirazioni e illusioni, in particolare per quanto riguarda l’America, vista come la terra della felicità e della libertà; ma tutto questo viene portato a un livello più alto, e anche più precisamente collocato nella storia. Siamo sull’onda della globalizzazione, di cui Noé evidenzia il lato oscuro, quello veramente oscuro, cioè non quello socio-economico, bensì quello che vede la flessibilità penetrare nella carne e nelle menti, l’assenza della tensione verso il giusto (per quanto stupido o ideale) a beneficio dell’utile, e l’amore incondizionato per la potenza (generatrice? distruttrice?) farsi strada: la libertà tanto invocata – ma non veramente agognata – s’è trasformata in un incubo in cui senza più nessuna linea tracciata ogni riferimento è perso e non c’è più esistenza per nessuno.
Gaspar Noé ce lo sbatte in faccia, è inutile farsi ipnotizzare dalla lisergia dirompente della mise-en-scéne. Lo fa indicandoci i suoi riferimenti, teorici ed estetici, con un cumulo di VHS tra cui spiccano Zombie, La maman et la putain, Le 120 giornate di Sodoma, Possession, e poi libri di Nietzsche o Kafka dall’altro lato del televisore. Perché prima di tutto, prima delle riflessioni sparse e astrattamente “umane”, Noé si focalizza sulla crisi della civiltà occidentale dell’ultimo trentennio circa, e nel preludio ci indica il punto di partenza della sua analisi, con i suoi limiti costitutivi, che poi sono anche quelli che lui cerca di oltrepassare con il cinema, ed ecco perché Climax si pone a metà fra i due spartiacque della sua filmografia (con Enter the void palesemente fuori categoria perché è cinema in un modo radicalmente diverso da tutto, ricordiamolo); la scena di ballo che si apre sovraimprimendo “un film francese e orgoglioso di esserlo” è proprio uno sfottò modernissimo in questo senso rivolto alla concezione ignorante dell’idea di nazionalismo (che nazionalismo non è) tanto di moda di questi tempi.
Non c’è nessuna anarchia, nessuna claustrofobia e via andare in Climax, pensarlo significa farsi abbindolare dall’orgia sanguinaria dell’ultimo terzo di film, e al contempo non c’è affatto amore per la libertà, né anelito a qualcosa di simile, solo perdizione derivata letteralmente dalla perdita di ogni punto fermo, culturale e ideologico. Qui sboccia il cuore pulsante (meta-cinematografico) dell’ultimo film di Noé, avvolto nella gabbia toracica di droga e sesso e sangue, quando il tentativo artistico di esprimersi al di là del linguaggio cozza e si mischia con i protagonisti, una generazione che in questo stesso “al di là” s’è smarrita, e il regista franco-argentino unendo una sorta di parodia narratologica del genere giallo, con le porte chiuse e la tempesta che impone la chiusura totale à la Christie e la decostruzione del triangolo movente-mezzi-opportunità, all’elaborazione estetica che ricalca lo spirito della compagnia, mette a fuoco il loro essere spaesati, senza nessun radicamento che li identifichi. La compagnia è un gigantesco nulla pieno di possibilità che lotta per diventare qualcosa senza riuscirvi.
E questo fallimento – annunciato, e perciò tragico – trova un araldo perfetto in quella mdp così quadrata in mezzo a tanta lascivia, che in un modo o nell’altro trova sempre il modo di tenere la distanza dai suoi soggetti/oggetti. Già dall’inizio (o la fine, fate voi) la camera volteggia e ruota tornando indietro nel tempo senza staccare per poi esibirsi in un piano-sequenza complesso e lunghissimo che mette in scena la prova dell’esibizione e la successiva festicciola, preferendo poi staccare e articolarsi in una miriade di piccole sequenze dialogiche serrate che poi a loro volta porranno le basi per la vuota simulazione di un rito bacchico spogliato di ogni legame con il sacro e il profano, il rispetto e la violazione. Quel nuovo inferno alternamente rosso, bluastro e ocra è una sorta di lucida follia collettiva, parallela alla lenta presa di consapevolezza che molto probabilmente alla sangria non è mai stato aggiunto nulla, la quale si fa strada nella mente dello spettatore mentre incesto e violenza, aborti procurati a ginocchiate e stupri psicologici imprimono sullo schermo il totale spaesamento di un gruppo di persone che hanno provato a liberarsi da un’invisibile oppressione con l’arte (la danza) ma possono tentare veramente solo sfogando ogni pensiero relegato nelle profondità del subconscio, ogni desiderio morboso mai ammesso, invano.
Siamo oltre il godimento derivato dall’infrazione, dal gusto del proibito, giunti così a uno stadio dove la violenza è l’unico modo per sperimentare la relazione con l’altro, ora non più segnata da alcun limite o regola, ovvero la situazione è quella di un novello A porte chiuse in cui l’altro è condizione per la sofferenza nel momento in cui è lì, solo presente a guardare e oggettivare – ed ecco perché una mdp così fissa, così a lungo tempo distante dai personaggi, prima di concedersi il sottosopra per sposarsi con l’esito finale. Gli sforzi, così apparentemente fruttuosi in principio, per la coordinazione del pezzo vanno in frantumi quando viene a galla il conflitto. Scaturisce da un espediente casuale e fornisce un alibi a chiunque per ignorare l’altro in quanto tale, e aggredirlo con violenza per sublimare quella conflittualità autentica che la prima metà del film ci ha mascherato e la seconda fa venire a a galla – perché oltre alla struttura “tripartita +1” c’è un’ulteriore divisione netta a metà nell’opera, che usando i titoli di testa a metà della durata preconizza un secondo vero inizio, ponendo una linea di demarcazione che separa il significato dal significante.
Ma in questo mare di follia che ci siamo sforzati di orientare e interpretare, tra la mdp mai utilizzata in un modo così attento e razionalizzato da Noé e la sua solita indescrivibile fotografia che passa da caldo a freddo in un attimo, bombardando l’occhio della spettatore in un vortice di transizioni senza ritmo e logica formale, accompagnata da un’interminabile soundtrack instrumental più o meno dance (Daft Punk, Moroder, Alpha Twins, ma anche Rolling Stones per variare e Bangalter), il tema principale eppure più nascosto che funge da colonna vertebrale di Climax è quello della nascita e della morte, di due momenti che si fondano e diventano un unicum che per Noé nel fim diventa la prima delle brutalizzazioni, il peccato originale che alberga in sé la violenza più vera, in un ciclo irrefrenabile: la morte non può arrivare se non nel ventre materno in questa sovversione, e così il figlioletto della coreografa muore dentro uno sgabuzzino che avrebbe dovuto proteggerlo dalla follia in esplosione, soffocato in una scimmiottatura del ventre materno, al pari del figlio mai nato di una delle ballerine, ucciso nel ventre dalla prima eruzione di pazzia, e al pari proprio di quest’ultima, che esalerà l’ultimo respiro in posizione fetale coperta da neve come placenta, e così al’infinito.
Il cinema di Noé è manierista, barocco, compiaciuto, ma al contempo capace di fare più di un passo indietro e subordinarsi nelle prime fasi all’improvvisazione di un corpo di ballo – non certo di attori professionisti – sapendo accompagnarli con senso della misura, lasciando a loro tutta la responsabilità della scena nelle coreografie, sa trovare la quadra perfettamente quando c’è da impostare come nei primi quaranta-quarantacinque minuti ma non rinuncia al piacere di perdersi dietro le contorsioni in solo di un’infuocata Sofia Boutelle nel ruolo di Selva, perché la mdp di Noé non è la mdp di Noé se non rivela un istinto famelico nel momento topico, provando a trascendere la logica, le regole e tutto ciò che è definibile. Per ritrovare il filo: meglio di Love, che purtroppo tende un po’ a svanire passata l’esperienza, lasciando non troppo nonostante la qualità eccelsa, ma forse non abbastanza genuino per fare da contraltare a Irréversible, però si tratta di un deciso passo in avanti in questa seconda fase di carriera per Noé: di rado tale veemenza lisergica riesce a elaborarsi con altrettanta profondità culturale.