Parallelamente al concorso per i lungometraggi (ne abbiamo discussi un paio), il FESCAAL 2021 riserva qualche gioiellino anche nella sezione minore dedicata ai corti: 10 brevi film che ondeggiano fra gli 8 e ei 25 minuti circa, con fisiologici alti e bassi, di cui di seguito si offre un agile riepilogo.
La prima giornata del FESCAAL vede presentare la prima accoppiata: A fool God di Hiwot Admasu Getaneh e Da Yie di Anthony Nti. Il primo è un simpatico ma superfluo incontro generazionale tra una nonna che perpetua le antiche leggende della cultura etiope e la nipotina Mesi, testarda al punto da sondare con il metodo sperimentale le favole che sente, anche in maniera piuttosto truce, se serve: poca roba, estremamente disarticolata nonostante duri appena una ventina di minuti. Il secondo è già più interessante, invece. La storia di Vince e Matilda, due bambini coinvolti senza che se ne rendano conto nelle vicende di gang di malavitosi che non è ben chiaro cosa voglia fare con i minori, è un mini-odissea di un giorno velata di un forte senso di malinconia che apre una finestra su di un Ghana crudele, dove da un momento all’altro la vita quotidiana di due ragazzini di nove anni può essere sconvolta per sempre davanti all’uscio di casa: non c’è luogo sicuro e cedere ai sensi di colpa decreta la fine della propria esistenza in quel contesto.
L’accoppiata successiva è formata dalle due opere più brevi del lotto, e anche qui abbiamo di fronte uno solo dei due corti che lascia buon ricordo di sé (Machini), ricostruendo in stop-motion quello che viene definito spesso lo “scandalo geologico” congolese in quello che una volta si chiamava Zaire, usando sassolini e scarti come materiale primo per assemblare i quadretti frame by frame. Mentre invece Sadla è approssimativo e animato da uno iato profondo tra ciò che vuole comunicare e la messa in scena, risultando vuoto e sciapo. Sorvolabile nel vero senso della parola.
Male invece il trittico presentato dall’Egitto. The trap, This is my night e Once upon a time in the café risultano tutti e tre accomunati dallo stessa tema – l’analisi delle fraglie sociali che vengono ostracizzate: donne, disabili e le masse poverissime – con sguardo però pesante e retorico. E se nei primi due almeno c’è la volontà di schierarsi dalla parte di questi – pur con un tono che quasi fa simpatizzare lo spettatore per al-Sisi – il terzo è solamente cattiva interpretazione, adombrata da paternalistica derisione, di un fenomeno popolare (quale quello del riscatto sociale tramite lo sport) di una popolazione strangolata dal carovita e terrorizzata dalla repressione politica.
L’ultimo terzetto invece alza decisamente la qualità. Bablinga di Fabien Dao è un sognante idillio di un vecchio stanco che non ha mai smesso di amare la sua terra nonostante tutto, e immagina il suo ritorno lì, nella vecchiaia, con colori pastello e i vecchi topoi del vecchio antieroe di ritorno dall’esilio che riallaccia i contatti con un mondo che magicamente non è mai cambiato – ma il mondo è cambiato eccome, invece. Seguono True story di Amine Lakhnech e Rasta di Samir Benchick. Una favola dark e un affresco neorealista, collegati dalle tematiche della paura, del trauma, di un segreto che divora i protagonisti da dentro. In particolare Rasta nella sua semplicità riesce a coniugare la tensione narrativa con una scena esplosiva che trasmette tutto l’affanno che una guerra trasmette a una persona, facendola mentalmente a pezzi; True story d’altro canto beneficia del fatto di proporre una variazione sul tema, nella fattispecie sul genere horror come contenitore metaforico.
Cinque promossi e cinque bocciati, in pratica, e se la seconda cinquina è francamente trascurabile, la prima non beneficia certo di sufficienze politiche.