Nella Cinecittà del ’53 la giovane e umile Mimosa – Rebecca Antonaci – è considerata abbastanza grande per sposarsi ma non per tutto il resto, vive di una passione infantile per il cinema e ha prospettive mediocri. Suo malgrado, tuttavia, si ritroverà coinvolta in un’avventura notturna memorabile che la porterà a scavare tanto in se stessa quanto in quella parte di Roma dove i sogni diventavano realtà, non per forza nell’accezione positiva dell’idiomatismo. Trascinata da due divi – Lily James e Joe Keery – nell’anima del litorale romano dopo aver partecipato per caso al finale di un brutto peplum, la ragazza ripercorre le tappe dell’ultima notte di vita di Wilma Montesi, sdoppiandosi come per mitosi. Il suo viaggio interiore sarà anche un viaggio nella capacità redentiva del cinema, almeno sulla carta.
E il cinema non è soltanto presente nel ritorno in laguna di Saverio Costanzo. Il cinema, così come appare in Finalmente l’alba, è una cosa che accade, si vive sulla pelle, evento ed esperienza allo stato puro. Eppure i doppi non esistono, le ambiguità si estinguono, rimane sempre chiaro qual è la verità e qual è la maschera, almeno sin dal momento in cui il regista nostrano decide di sovrapporre direttamente Mimosa a Wilma, ponendo la prima dietro il proiettore del filmato di repertorio. Analogamente la distanza di sicurezza tra interpreti e personaggi rimane costante; a contrarsi e deformarsi, esattamente come in Hungry hearts, è lo iato tra doxa ed episteme, in questo caso scandito da un percorso parallelo di crescita ed emendazione del dato di realtà. Alla stessa protagonista è data un’altra identità per gioco, ma è ancora un travestimento, con tanto di “costume”, non un contraltare effettivo.
Costanzo costruisce un omaggio a Wilma Montesi (e in generale alla figura della vittima), provando a immaginare non tanto una versione alternativa dei fatti quanto una sorta di superamento; nel film Wilma è morta, come nel nostro piano di realtà, e Mimosa è la protagonista recalcitrante di un loop da cui uscirà solo maturando, diventando donna, riscattando la sua gemella e sublimando la composizione tropica del coming-of-age movie – a cui è doveroso ascrivere Finalmente l’alba, tanto è il rispetto dei crismi. L’idea di base invece non è concettualmente distante dal Tarantino di Once upon a time in Hollywood, anche se l’esecuzione è lontana nello stile (ovviamente), oltre che nella stratigrafia dei livelli narrativi, del tutto estranea a Costanzo che non riesce a spingersi alla profondità necessaria per tracciare un ragionamento di tale spessore semiotico.
Finalmente l’alba potrebbe essere tranquillamente l’ennesima divagazione tratta da Il diario di un’estate marziana, un’immensa peregrinazione per Roma da cui emergono walserianamente storie mai chiuse che con la loro testualità promiscua si allacciano all’immaginario collettivo fatto di sogni e speranze ma anche di storia e di vissuto personale, diluendolo, impregnandolo. Ma nonostante l’impostazione felliniana sulla scia delle odi alla potenza plasmatrice del cinema, il film si perde nella mortificazione fattuale di se stesso, urlando disperatamente le proprie subalternità e soggezione, quasi negandosi. L’esplorazione costante dello spazio diventa ostinata obbligazione formale e rinuncia all’idea di un qualsiasi chiaroscuro, di un’ombra, di un solo lato cieco per lasciare posto a una rifrazione che non vuole altri riflessi di sé, di un gioco finzionale che non accetta a sua volta di essere parte del medesimo gioco.
La chiave scelta da Saverio Costanzo è insistere nell’allontanare ogni possibile equivocità, preferendo invece l’ipocrisia della consolazione, e così ostenta un’idea di cinema derivativa che può essere concepita nella sua integrità solo quando si schiaccia sulla verità, oltre ogni forma di artificiosità e recitazione, come spietatamente dichiarato dalla sequenza in cui James/Esperanto costringe Mimosa, rea di averla distolta dal centro dell’attenzione durante la “cena elegante” del marchese, all’umiliazione pubblica, col solo risultato di ottenere da lei un’interpretazione veritiera perché scevra da copione, coincidente con la mera emozionalità. A tutto ciò fanno eco il quadretto del musical improvvisato (e cantato dal vivo) e la sequenza iniziale col classico momento zoom-back-camera, che ribadisce come per Costanzo ci sia perfetta corrispondenza tra la seduzione ingannatrice del mondo del cinema e il linguaggio del cinema in sé, tra la lordura di quella Roma che ammazza impunemente le ragazzine ingenue e l’inganno della finzione in quanto tale.
Dopo una premessa estenuante in cui la tensione purtroppo non monta gradualmente ma si ingolfa come un vecchio motore, il nostro apre il bagaglio dei trucchi e inizia a giocare con gli strumenti che gli sono più congeniali, quali il piano-sequenza che si attorciglia nel labirinto di una casa-prigione o il patetismo grottesco che si fa pian piano strada nell’architettura linguistica del film, con sprazzi orrorifici e coreografici; ma questa capacità di articolazione, in cui a questo punto si può intravedere il retroterra di una concezione solo strumentale della sintassi, crolla sotto il peso di un ricorso eccessivo e grossolano al simbolismo, a partire sempre dall’incipit per arrivare alla leonessa (in pessima CGI…) che esce dalla gabbia, passando per l’antinomia tra pulsione scopica e conveniente cecità o lo stucchevole gioco di specchi.
Anche Costanzo ha congegnato la sua grande bellezza, con tutte le conseguenze del caso, finendo però per rovinare in una sorta di maldestra offensiva alla nozione stessa di metafora. Sul cameo di Alba Rohrwacher nei panni di Alida Valli, a mo’ di chiosa, preferiamo sorvolare senza ulteriori spiegazioni in aggiunta alla semplice e banale evidenza.