Imbach storicamente alterna le prime dei suoi film trai festival di Locarno e di Berlino, e, da perfetto svizzero, non viene meno alla stereotipata precisione che s’attribuisce agli elvetici, non contravvenendo a questa abitudine. Cinque anni dopo Mary queen of Scots, ritorna nella terra natia con Glaubenberg. L’omonimo monte svizzero è una sorta di luogo spirituale all’interno del film, suggellando i momenti di svolta nel rapporto tra i protagonisti; rapporto che non dovrebbe essere troppo stretto, in quanto stiamo parlando dei fratelli Noah e Lena, ma a quest’ultima importa poco se l’amore che prova cade sotto il tabù dell’incesto. Ella invece cadrà invece preda delle proprie ossessioni quando Noah partirà per accettare un’offerta in lavoro in Turchia, di fatto respingendola, e spingendola inconsapevolmente in viaggio verso l’ignoto.
Il concorso internazionale di Locarno 71 sta procedendo a rilento, mancano sia le emozioni forti, che le grandi conferme, che le sorprese inaspettate. Glaubenberg vorrebbe essere un po’ tutte e tre e infatti ne risulta un’opera complessivamente anonima, piena di piccoli difetti che fanno tutt’uno con il fondamento solido della stessa, il classico film che si commenta con: “embé?”. Un melo a tratti romantico, che vira il verso il film di formazione adolescenziale, poi si rimette in carreggiata sui binari del dramma intimista, finendo nell’angst più diretta per approdare di nuovo nel ramo di un insistito dramma struggente. E chi si orienta in tutto questo? Lo spettatore si perde come la dolce e ingenua protagonista, la cui compulsione, non riuscendo mai ad abbruttirla del tutto, si sposa forzatamente con l’innocenza dei sedici anni del personaggio – una gran prima prova di una magari non sedicenne ma comunque giovanissima Zsofia Körös – e questi difficilmente potrà ritrovare il filo di un discorso che di fatto si perde dopo la prima ora di pellicola.
Questa primo scaglione è trattato in modo rude, tecnicamente parlando, volontariamente rude, tale da girare in tondo con la camera a spalla a questo ambiente vuoto, stringendo le inquadrature sui personaggi perché, per adesso, tutto quello che sta intorno non interessa, non è di autilità alcuna. Il turning point arriva con la gita sul Glaubenberg, teatro precedentemente dei giochi d’infanzia dei fratelli, della loro definitiva separazione, e più tardi della conclusione della vicenda tout court, dove per la prima volta si apre allo spazio nella sua interezza – con un montaggio che d’ora in poi sarò estremamente delicato – come può essere restituita solo dalla mdp, che da lì in poi, con la partenza di Lena alla disperata ricerca del fratello, diverrà assoluto protagonista, dalla Svizzera alla Turchia e ritorno, della desolazione che circonda la ragazza: persa nel nulla, dà l’immagine totalizzante del film, nel crescendo angosciante che è poi la parte più attrattiva eppure più confusa.
Nonostante ciò questa seconda fazione è tirata per i capelli, spalmata fino a perdere, negli ultimi minuti, la propria consistenza oggettiva, in una deriva patetica che non riesce a rendere una certa poesia visiva, trascinandosi, assieme ai deleteri simbolismi fantastici, in un finale dai tratti risicoli. Esso fa il paio con quei momenti inutilmente esasperati della lite con l’insegnante nell’ipotetico triangolo amoroso obbligatoriamente stereotipato o delle scene Festen, mal gestite in toto. Senza lode e senza infamia, di un melanconico infantile ma piacevole, tutto sommato foriero di bei momenti. Il solito “embé?”.