Rompendo il lungo silenzio seguito a Would you have sex with an Arab? (2011), Yolande Zauberman torna a imbracciare la macchina da presa per denunciare la pratica degli abusi minorili nella roccaforte mondiale dell’ortodossia giudaica, facendosi guidare da uno chaperon d’eccezione a sua volta vittima delle violenze.
Bnei Brak, a Sud di Tel Aviv. Prospera qui la più grande comunità di hasidici, «i più ortodossi tra gli ebrei ortodossi», come puntualizza la regista – ne abbiamo avuto un assaggio qui al festival già in #Female Pleasure. E sempre qui Menachem, a partire dall’età di quattro anni, è stato violentato da quelle stesse persone – rabbini, maestri, studenti anziani – incaricate della sua formazione. Da che è fuggito sono passati quindici anni, ma per lui poco è cambiato: i ricordi non possono essere cancellati e non c’è modo che i colpevoli finiscano dietro le sbarre. Consapevole di questo, Menachem cercherà di fare pace con i suoi carnefici e di inquadrare meglio, confrontandosi con chi condivide lo stesso oscuro segreto, l’entità del fenomeno.
In M non c’è lo spietato infanticida del capolavoro di Fritz Lang, ma i mostri e le vittime non mancano. Coincidenza vuole che una di queste sia un altro Lang, Menachem, oggi apprezzato cantante liturgico e attore di cinema, in cui ha esordito con un ruolo in Verso Oriente (Kedma, 2002) di Amos Gitai, regista al cui fianco Zauberman iniziò la sua carriera – fu proprio la padronanza dello yiddish dimostrata nella performance in Kedma a incuriosire la regista.
Stanco di far finta che nulla sia accaduto, Menachem si racconta con sincerità dinanzi all’obiettivo: quello che gli è stato fatto non gli ha tolto la fede in Dio, ma gli impedisce di convivere armoniosamente con la propria persona e sessualità. Certo è che non è più possibile restare in silenzio dinanzi a una comunità in cui lo stupro è sistemico e sistematico. Partendo dal soggettivo per derivarne l’oggettivo, il focus del documentario gradualmente si allarga andando a inglobare le esperienze di chi, fermato da Menachem, ha voglia di confidarsi. Quello che ne emerge, per la (brutta) sorpresa di chi guarda, è che a Bnei Brak la violenza sessuale su chi è troppo piccolo per opporre resistenza sembra essere la prassi. Ecco cosa può succedere quando un ambiente segnatamente settario, moralistico e androcentrico si chiude definitivamente in se stesso, giustificando le proprie atrocità con una sorta di mandato divino.
Affidandosi alla fotogenia e simpatia di Menachem, che resta dall’inizio alla fine il primo oggetto dell’indagine, Zauberman punta il dito ma non crocifigge. M è anzitutto una dichiarazione d’amore a quelle istituzioni che, se epurate, possono garantire la felicità del singolo. È anche vero che, trattandosi di un lungometraggio ad personam, spesso la verve del protagonista finisce per rubare la scena agli altri testimoni interpellati, trasformando certe sequenze in veri one man show che tradiscono un certo autocompiacimento dell’interessato nel raccontare le sue miserie. La personalità di Menachem è stravagante e fa piacere approfondirla, ma in sede di montaggio forse si sarebbero potuti risparmiare diversi minuti di girato fini a se stessi.
Coraggioso e toccante, M rappresenta indubbiamente un ritorno in grande stile per Yolande Zauberman, che nonostante le riuscite incursioni nel cinema di fiction rivela ancora tutto il suo potenziale in quello del reale.