Jan Švankmajer ritorna al cinema dopo otto anni con il suo settimo (e, a quanto lo stesso regista ha dichiarato, ultimo) lungometraggio, tratto, come al solito molto liberamente, da Pictures from the insects’ life, testo teatrale satirico dei fratelli Čapek. Rotterdam quindi, che fu il palcoscenico d’addio anche per Jan Němec, maestro qui omaggiato, ha l’onore di ospitare l’ultima prima di un film di Švankmajer, che speriamo possa raggiungere gli schermi italiani al più presto.
L’opera dei Čapek si configura essenzialmente come una rivisitazione de La favola delle api di Mandeville che riposa però su una dimensione onirica. Švankmajer si sostituisce idealmente al sognatore/narratore del testo in prima persona e inizia a un lavoro di decostruzione in quattro livelli – il film, il film nel film, il making of, e il making of del making of – in un procedimento analogo a quello dell‘incipit di Surviving life, conscio del fatto che palesare la finzione filmica in modo così manifesto è sì pesante ma può diventare una grande risorsa in un discorso autenticamente surreale.
Surreale è la prima parola che viene in mente quando si tratta di definire Švankmajer, anche se chi scrive ha approfondito maggiormente i suoi lungometraggi rispetto ai corti animati che hanno fatto del regista ceco uno dei più grandi autori dell’Europa dell’est guadagnandosi la nomea del surrealista. Surreale è infatti l’idea di nascondere il film dietro al film, abbandonando le pretese di verosimiglianza per andare al cuore del processo creativo. Sul piano pratico Hmyz è un film che di fatto consiste nel suo making of: una scalcinatissima compagnia teatrale sta cercando di mettere su, appunto, una piéce basata su Pictures from the insects’ life, che poi è, narrativamente, il film in sé, il quale però si ribalta nel suo dietro le quinte. Un dietro le quinte che si accartoccia poi su se stesso (sì: ancora) svelando un ulteriore livello di realtà. Lo stesso Švankmajer introduce il lavoro a cui s’appresta, correggendo nello studio tutti i difetti del film iniziale, in questo contesto nient’altro che una bozza. Il regista affronta i dubbi di produzione, e scelte relative al doppio finale, a come coniugare questo suo stesso intervento parlato davanti alla cinepresa con il risultato conclusivo, facendo degli scarti, dello svelamento dei trucchi di montaggio il fil rouge che tiene assieme questa caotica opera.
Il film non è più quello che vediamo sullo schermo, ma il suo intero procedimento, quanto si vede alla fine è solo una sorta di riassunto, di idea che tiene compattata una particolare manifestazione artistica che invece si esplica appieno in tutto quello che ci fa vedere Švankmajer. Sono i ciak sbagliati a divertire, a intrigare di più il veterano ceco, che necessita di più di un tentativo anche per capire cosa vuole fare effettivamente, figurarsi centrare davvero l’obiettivo. In questo trambusto film, cinema, reale e finzione collassano in unico brodo primordiale denso di possibilità, così  Švankmajer è libero di parlare di come si dovrebbe girare una determinata scena, ma quello che dice lui viene subito ripetuto da uno dei suoi attori, dando il via a un cortocircuito all’interno del quale provare a riordinare le cose significa perdere la distinzione tra la scrittura di una battuta, la sua prova, la sua definitività, fino a chiedersi se non questa non sia piuttosto un commento generale sul cinema e non sull’opera in esame. Il cinema si vivifica solo nel suo atto menzognero, quando si fa espressione di un qualcosa di determinato dall’oceano di possibilità progettuali, emergendo nella sfera del reale quando si fa sua raffinata imitazione.
E Švankmajer sa benissimo – in qualità di autore tutto confluisce, in questo tipo di ragionamenti, nella sua esperienza e cultura – come funzionano l’animazione e il teatro di figura, tanto da citarle nel prologo dove invade lo spazio cinematografico. L’animazione è di fatto l’effetto speciale primigeno per lui, cioè l’atto con cui si sfocia nel cinema vero e proprio nella sua forma più visibile e carnale. Basta ricorrere ai primi maestri russi per capire che già l’occhio della mdp basta a modificare la realtà in modi irreversibili, offrendo sempre un quadro dipendente solo da se stesso (non stiamo discutendo questo) ma in Hmyz ci si rende seriamente conto di come l’animazione (che interviene, anche se in misura minore rispetto agli altri lavori del regista) rappresenti la scintilla che codifica la manipolazione tecnica di un qualcuno che piega l’immagine della realtà per raffinarla, coglierne una sfaccettatura nascosta ed alternativa.
Lo stesso discorso vale per il ruolo del cinema, quando il nostro nello sviluppare una serie di interrogativi sul rapporto tra opera originale ed elaborazione filmica (questo vale sia per il mondo reale che per l’opera dei Čapek), finisce per inglobare nella prassi realizzativa questa stessa polarità, che da extra-cinematografica si fa addirittura prettamente narrativa e storica. Anche la stessa verve anti-borghese va tenuta presente ma viene presto dimenticata in quanto subordinata allo spirito del film, che non la contempla, neutralizzandola con una forza che va oltre. Tutto quanto in questo andirivieni giocoso si fa fisico, umano, risaltando quei vecchi rozzi trucchi del cinema artigianale che ci piacciono tanto non perché gradiamo particolarmente gli effetti sonori ottenuti con rumorose coltellate inflitte a carcasse di pollo o perché ai bei tempi si saltavano i fossi per lungo, ma per la loro appartenenza a quel cinema inteso come esperienza artistica con dinamiche precise, al di là dell’industria, radicata in ottica valoriale, qualitativa. Ecco perché Hmyz è una degnissima conclusione per la carriera di Švankmajer, un regista capace di sovrapporre sogno e cinema nel modo più autentico possibile nel meraviglioso mondo della menzogna. Metacinema, cioè cinema puro, all’ultimo stadio. A noi non resta che sperare che, in un piccolo amarcord di otto anni, Jan Švankmajer non abbia fatto altro che mentire alla macchina in tutti i sensi come in Surviving life.