Presentato all’interno della Settimana della Critica a Cannes71 e insignito del Premio Lux dal Parlamento Europeo, il secondo lungometraggio di fiction di Benedikt Erlingsson Kona fer í stríð – titolo internazionale Woman at war – conferma il talento dell’islandese, che grazie all’apporto di Ólafur Egilsson in fase di scrittura trova la coerenza narrativa che gli difettava riuscendo a coniugare il suo senso dell’umorismo con la spinosità del tema.
Di mestiere insegnante di coro, nel tempo libero Halla – Halldóra Geirharðsdóttir – si dedica al boicottaggio delle industrie siderurgiche che minacciano di distruggere la sua terra: agisce da sola e gli unici a conoscere il suo segreto sono la gemella Ása – interpretata sempre dalla Geirharðsdóttir – e un funzionario del Ministero dell’Interno – Jörundur Ragnarsson – suo complice. All’ennesimo traliccio abbattuto le autorità decidono di darle la caccia ma lei non demorde, almeno finché non scopre che dopo anni di attesa la sua richiesta di adozione è stata accettata. E se ci fosse un modo per diventare mamma senza rinunciare a portare a termine la propria battaglia?
Pur senza la magniloquenza e la tensione drammatica di First Reformed (2017) che si reggeva sulla performance di un formidabile Ethan Hawke, alla pari di Schrader Erlingsson racconta l’ecologismo radicale e militante di una donna – una non meno formidabile Halldóra Geirharðsdóttir – che sotto lo pseudonimo di «donna elettrica» – da cui il titolo della distribuzione italiana – ha dichiarato guerra alle fabbriche e al governo che ne protegge gli interessi, su cui aleggia lo spettro della Cina e del suo paradigma produttivo senza scrupoli.
Ancor più che nel precedente Storie di cavalli e di uomini (2013), esordio non privo di intuizioni ma inconciliabile con la forma cinema per la sua natura episodica – come miniserie forse avrebbe pure funzionato – alla disperata ricerca di circolarità, ne La donna elettrica il regista rende coprotagonista il paesaggio non urbanizzato dell’Islanda, che con le sue praterie, ghiacciai e sorgenti sulfuree offre riparo e ristoro alla paladina incaricata di proteggerlo, divisa tra l’amore per la Madre Terra – amore è la parola giusta, visto che spesso Halla ricerca con essa il contatto fisico – e il desiderio di diventare lei stessa madre di un’orfanella che la aspetta da qualche parte in Ucraina.
Ed è la musica, diegetica ed extradiegetica insieme – chi suona è sempre in campo –, che si propone di polarizzare questa tensione: musicisti del posto si alternano a cantrici del folclore ucraino in costume tradizionale – coincidenza vuole che in Concorso a Cannes71 ci fosse il polacco Pawlikowski con i canti folclorici del suo splendido Cold War… – a esplicitare il sentire di Halla, ora tutta presa dalla missione – e avremo allora trombone e tamburo dell’orchestrina islandese – , ora esitante nel momento in cui pensa alla sua bambina – e avremo ovviamente il coro ucraino.
I musicisti nel bel mezzo del nulla, insieme al povero immigrato Juan – l’attore è Juan Camillo Roman Estrada, presente anche in Storie di cavalli e di uomini sempre in funzione di comic relief – cui ne capitano di tutti i colori, sono il segno più tangibile dell’umorismo dell’autore che percorre tutta la pellicola. Un po’ come nel cinema di Östlund, situazioni a un passo dall’inverosimile dilatano la realtà, la deformano costringendola ad assumere una smorfia grottesca, ma nel caso di Erlingsson questa non mantiene la sua plausibilità dall’inizio alla fine: con incursioni surreali che potremmo ritrovare in un film di Kusturica, ogni tanto ci viene ricordato che siamo al cinema ed è lecito aspettarsi anche l’impossibile.
E bersaglio di questo umorismo non poteva che essere il potere che si scopre impotente: esasperato dagli attacchi terroristici della donna elettrica, il governo fa leva sul sentimento nazionalista – e sotto sotto anche razzista, visto il trattamento riservato a Juan nel sospetto generale – della “brava gente” d’Islanda, nella (vana) speranza di velocizzarne la cattura. Emblematica a questo proposito la panoramica verticale girata nella gola di Almannagjá, storica sede dello Alþing, l’assemblea dei vichinghi: come i capi tribù solevano riunirsi in cerchio per decidere delle sorti del regno, così fa il Primo Ministro con il suo staff, con la macchina da presa che sale a omologarli al sito archeologico; che si tratti di vichinghi o di politici di oggi, i meccanismi di dominio dei superiori sugli inferiori sono sempre gli stessi e chi si oppone va subito schiacciato.
Oggetto curiosamente altro nel panorama del cinema nordico, grazie alla varietà di modi di ripresa – steadycam, riprese da droni, visori termici, telecamere di sicurezza – e allo spirito ribelle La donna elettrica è riuscito a stregare persino Jodie Foster, che si è impegnata a dirigerne e interpretarne il remake previsto già per il 2019. Difficile dire cosa ne verrà fuori, soprattutto ora che con i film “di denuncia” – in senso strettamente politico e non – Hollywood ha perso la mano: quello che è certo è che Erlingsson ha fatto il fantomatico balzo, e d’ora in poi le aspettative restano alte.