John F. Donovan – Kit Harington – è un giovane attore televisivo di successo, Rupert Turner – Jacob Tremblay – è un bambino di otto anni che lo idolatra e avvia una corrispondenza con lui. Cresciuto, pubblicherà le sue memorie d’infanzia e adolescenza.
The death and life of John F. Donovan è un film nato e cresciuto all’ombra di complicazioni post-produttive tali da non poter essere ignorate se si scrive a riguardo. Dolan aveva iniziato a lavorarci già prima della premiere di È solo la fine del mondo, ultimandolo quando invece la pre-produzione del futuro Matthias & Maxime era già stata avviata, senza tuttavia riuscire a dargli una forma definita. Sono rimaste fuori circa due ore di girato e una linea narrativa è stata completamente rimossa assieme a Jessica Chastain, e la prima continuava a essere rinviata; rifiutati Cannes e Berlino, il regista canadese ha scelto di rifugiarsi nel paese natio con il festival di Toronto, temendo la reazione di una piazza che a suo modo di vedere mal lo sopporta.
E infatti l’opera è stata un massiccio insuccesso sia di critica, che di pubblico, a fronte inoltre di un budget di (quasi 40 milioni di dollari) fuori scala rispetto al passato. Persino in Italia la Lucky Red ha posticipato di quattro mesi l’uscita perché quello che doveva rivelarsi un titolo di punta dava ben altre indicazioni dall’estero, concedendogli successivamente appena una settimana nelle sale dopo avergli preferito I villeggianti di Valeria Bruni Tedeschi, il che è tutto dire.
La mia vita con John F. Donovan – questo il titolo italiano – è dichiaratamente il film più intimo e personale di Dolan, più esplicito di J’ai tué ma mère o Les amours imaginaires e più maturo di entrambi ma fallato all’interno, tanto da trascinarsi dietro per tutto la durata (ridotta ad appena due ore dagli ampi tagli) difetti strutturali evidenti. Eppure si tratta di un film di cui è semplice parlare in quanto presenta una moltitudine di elementi interessanti e dal forte carattere simbolico, manca però di sostanza. È un film nato malato che sembra elaborare una storia che nessuno voleva raccontare, trasudando spesso imbarazzo e arrovellandosi su cosa mostrare e cosa nascondere, come se la preoccupazione principale fosse il giudizio del pubblico non tanto sul film ma nei riguardi dello Xavier Dolan persona.
È cosa risaputa che Dolan, attore bambino all’epoca, abbia scritto a Leonardo Di Caprio per congratularsi dopo aver visto Titanic. Un atto d’ammirazione infantile cui Dolan ha reso omaggio in La mia vita con John F. Donovan in un intreccio di realtà e finzione che vede il suo (primo a non unico) alter-ego Rupert Turner affrontare una storia di formazione attraverso il rapporto epistolare con Donovan. Tutto avviene durante un’intervista: Rupert adulto racconta del sé bambino e di John Donovan con la stessa accuratezza, come se avesse vissuto entrambe le vite. È chiaro fin da subito come il protagonista stia inventando la sua storia, esattamente come Dolan sta inventando e girando quella che vediamo sullo schermo, trattandosi di un iter psicologico, un percorso di porte girevoli sulla falsariga di Mr. Nobody. Nella sua frammentarietà psicanalitica, il film ricostruisce, esasperando un sogno di bambino, le alternative di Xavier Dolan, le sue scelte esistenziali, in quanto il nostro è un riflesso tanto di Donovan quanto di Turner. Dolan ha scritto davvero a Di Caprio, ma paradossalmente questo non è importante, a interessarci è il sogno a occhi aperti di un bambino che agognava a una figura salvifica. La mia vita con John F. Donovan è la trasposizione in film fisico di un film mentale, un’elaborazione ulteriore di “una cosa che magari faceva schifo ma ha salvato la vita a un bambino”, parafrasando Rupert.
D’altro canto non è difficile leggere nell’opera, specie nella seconda parte, una celebrazione autoriferita mascherata da confessione. John F. Donovan è sì la personificazione di quello che Dolan ha immaginato come uno dei possibili futuri sé, ma è anche la propagazione del suo vero interprete, quel Kit Harington – attore mediocre che ha ottenuto la fama con una serie TV interpretando Jon Snow – è John nella misura in cui anche il personaggio è un mediocre consacrato da un serial supereroistico. Dolan illustra come lui stesso si sia salvato in autonomia, di come è diventato il regista che è “sacrificando” John, come in una simulazione virtuale. La sue crisi isteriche, la malattia, l’omosessualità repressa sono tutti rimandi più o meno espliciti alla vita e alla filmografia precedente del regista che danno forma a una pesante allegoria che si contrappone, come doppiamente finzionale, alla realtà del Xavier Dolan uomo. Rupert e John non si incontrano mai nella narrazione, ciascuno dei due ha un preciso intreccio e l’unico collegamento è il ragionamento del primo durante l’intervista, le loro azioni acquisiscono forma su un unico piano narrativo senza tempo: sono l’uno la negazione dell’altro, e perciò i due si reggono vicendevolmente. La coppia è dotata di una dialettica singolare che accompagna i personaggi al punto di rottura delle loro vite, fino a quando uno dei due simbolicamente attua un sacrificio, appunto, per far vivere l’altro.
La mia vita con John F. Donovan è una versione di Dr Jekyll e Mr. Hyde vista come se il doppio fosse un rapporto genitoriale, con una parte a definire l’altra fino allo svezzamento della metà più giovane. Dolan rivisita uno dei suoi topoi – quello del matricidio – sostituendo John al personaggio di sua madre, assente dall’inizio del film ma redenta nel finale, con quella scena della corsa disperata sotto la pioggia al ralenti; francamente un po’ troppo, anche per l’estetica dolaniana. Le madri tornano a invadere la vita dei figli poi, lo fanno sia quella di John, sia quella di Rupert, rispettivamente interpretate da Susan Sarandon e Natalie Portman, con destini opposti, in un ulteriore scissione che rimanda a uno dei momenti più importanti nella vita del regista per sua stessa ammissione, ovvero la riconciliazione con sua madre. Sarandon dà l’addio al figlio, spossata, ancor prima che lui lo dia a lei prima di uccidersi, mentre Portman non rinuncia, insiste, andando a rappresentare una delle figure chiave nel gioco di sliding doors.
La mia vita con John F. Donovan è un film che francamente si fatica a immaginare migliore di così, sebbene sia ricco di suggestioni interpretative e complessità sul piano analitico rimane intimamente povero, semplicistico nella misura in cui fa tremendamente fatica a non appiattirsi su ogni questione, a presentare uno spunto che non marcisca nel giro di poche inquadrature. Lo stile pop di Dolan diventa autoreferenziale e ruffiano man mano che si procede con la visione, quella caratteristica di finta superficialità si rivela invece un bluff. Alla fine lo spettatore non può non dar ragione alla giornalista che funge da espediente per agevolare l’empatia con la storia di Rupert riconoscendo nel film, nonostante tutto, una vuotezza di fondo: Death and life of John F. Donovan è, come dice quest’ultima, un “first world problem”, un capriccio ingenuo, certamente raffinato, ma non è affatto abbastanza se ti chiami Xavier Dolan, qui alla sua prova più deludente.