Nel penultimo giorno del Locarno Festival 2017, va in scena l’ultima proiezione nella (e della sezione) Piazza Grande, ovverosia l’attesissimo Atomic Blonde di David Leitch, ispirato alla graphic novel The coldest city.

L’ agente dell’MI6 Lorraine Broughton (Charlize Theron) viene mandata a Berlino durante la Guerra Fredda per fare luce sulla morte di un agente americano e recuperare una lista che contiene i nomi di tutti i doppiogiochisti all’interno dell’organizzazione. Qui si dovrà confrontare con il salvataggio di un traditore russo e confrontarsi con un agente corrotto dall’identità sconosciuta che sta tirando le fila soprannominato Satchel.

Ora, gli elementi per fare un film di successo ci sono tutti. Due volti noti e sulla cresta dell’onda come Theron e McAvoy (reduci rispettivamente da due grandi prestazioni come Mad Max: Fury Road e Split), uno script che ora va tantissimo, cioè l’action plasticoso, meglio ancora se tratto da un fumetto, un mestierante alla regia senza nessuna pretesa, e una campagna pubblicitaria che promuove novità ma cela tutt’altro. Per carità, se ne vedono tanti così e altrettanti se ne vedranno, il punto è che quantomeno qualcuno, se viene propugnato come nuovo, almeno ci prova a fare qualcosa di originale, si pensi a Kingsman, per esempio. Il punto è, purtroppo, che questo Atomic blonde non è nemmeno il classico film “che non dice niente ma intrattiene” perché fallisce anche in quest’ultimo scopo.

Non un fallimento che lascia l’amaro in bocca, intendiamoci, ma che non restituisce nemmeno il tempo usato, cioè il traguardo minimo do ogni action degno di questo nome, che si traduce, nella bocca dello spettatore con un sonoro “embè?”. Nella fattispecie viene resuscitato lo scenario della guerra fredda per veicolare una narrazione classica, con tutti i topoi necessari e pre-impostati. Femme fatale sensuale, selvaggia e violenta (come ci recita la locandina)? Check. Un cattivo che esordisce con una scena di violenza gratuita per far capire quant’è cattivo? Check. Un deuteragonista eccentrico che fa da linea comica? Check. Una sola scena che tenta di urlare “cinema!” che funga da mascotte durante il battage pubblicitario? Check. Il punto è capire dove il film dovrebbe svettare sulla massa di eguali, laddove ogni scena sembra essere fatta con lo stampino prodotto dalla Nolan Industries©.

Andando con ordine, la protagonista eponima rispecchia il titolo solo a metà, bionda è bionda, ma piú che atomica è atona. Non che la kick-ass woman, evoluzione/involuzione della dark lady sia un personaggio che si contraddistingua per complessità psicologica, come del resto il kick-ass man, tant’è nessuno ha mai pensato di elevare i personaggi di Bruce Willis o Jason Statham a caratteri mirabili: veramente in questo caso l’unica cosa che cambia sono i capelli. Charlize Theron non riesce nemmeno a entrare nel ruolo della macchietta, le sue perspicaci battute a effetto sono sussurri che piú che ricordare il genere hardboiled mostrano quanto sia bollito il personaggio, mentre il suo essere sensuale non si esplica nel portamento, o in come viene diretto da Leitch, ma da una mezza dozzina di inquadratura di pelle nuda per capitalizzare attenzione, evitando rigorosamente il nudo. Non che c’è ne sia bisogno poi in un film del genere, è infantile far convergere la nudità con la sensualità a prescindere, ma l’aspetto di pudico candore mascherato da sfacciataggine della pellicola fa piú ridere che attirare l’attenzione. Dio salvi il PG-13! Theron era piú sensuale nel succitato Mad Max: Fury Road, monca, calva, sporca di olio motore, e perennemente incastrata in un camion-cisterna semi-radioattivo, il quale aveva inoltre una marcia in piú della Theron, potendo fare la retro.

La nostra bionda invece va sempre avanti, passo dopo passo si scopre una nuova pista: i personaggi secondari e/o villain in seconda vengono introdotti dopo l’altro per poi fare la loro particina e sparire, ognuno con una caratteristica specifica che lo contraddistingue pur di non farli sembrare poco piú che comparse, per dare impressione di serietà. Ad esempio, c’è chi ha la faccia cattiva, chi ha la faccia piú cattiva, chi è guercio, chi non ha i denti, chi ha un’acconciatura strana, c’è ne persino uno con la faccia cattiva e l’acconciatura strana. Senza esagerare, non c’è alcuna ragione per aspettarsi approfondimento psicologico da un film del genere, ma se se ne vuole dare l’impressione il risultato è risicolo, come in questo caso, al punto che il colpo di scena del misterioso personaggio di Satchel si risolve rilevando allo spettatore che questi era l’unico altro personaggio presente nel film oltre alla protagonista. Un po’ come se Assassinio sull’Orient Express vedesse sul treno Poirot, il cadavere e un’altra persona con un coltello in mano. Se poi questo stesso personaggio deve fare anche la linea comica, la cosa diventa non solo ampiamente fastidiosa, ma pure un filo trash.

Menomale che verso i due terzi del film abbiamo invece una scena con cui riempirci per bene la bocca, il magnifico piano-sequenza che deve salvare il film dall’accusa di non eccellere per colpa dell’orrido montaggio. Perché sostanzialmente l’approccio tecnico è questo: 100′ minuti di pellicola sono frenetici, anche senza un valido motivo, nessuna inquadratura lascia il tempo necessario a essere vista nella sua composizione, e poi c’è un piano-sequenza. Uno solo. Circa. L’effetto finale è magari anche funzionale, se si tiene un occhio chiuso forse pure discreto, resta il fatto che quel long-take non è un long-take. Gli stacchi, che sono molti e di palesi ce ne sono almeno tre (al terza esecuzione di Lorraine, il passaggio nella stanza al piano di sopra, l’uscita dal casolare) oltre che tali da non poter essere risolti con la CGI, non fanno altro che dare la sensazione di artificiosità, di posticcio, quando poi i piano-sequenza ha come scopo precipuo esattamente l’opposto. Non ultimo il fatto che oramai questo tipo di uso del mezzo serve solo a fare da marchetta, seguendo la moda del film/della serie d’intrattenimento che adesso propone se stesso/a come alto e ricercato, e gli esempi si sprecano.

In conclusione, Atomic blonde è un film d’intrattenimento che piú che senza infamia e senza lode è senza alcunché. Nessuna particolarità, nessuna novità, solo tante piccole cose che servono a promuovere il marchio del film e non il film stesso, senza contare poi l’ipertrofia musicale, verbosa, di minutaggio, che tradisce un malcelato horror vacui a ogni inquadratura e non seduce lo spettatore ma gli urla “guarda la mia merce, guarda la mia merce” con la stessa grazia di un pescivendolo al mercato. Atomic blonde è un film sgraziato; guardabile, certo, ma non per questo meno perdibile. Non fa nemmeno arrabbiare, non è infimo, ma mediocre. Nella logica romanesca di Fernando di Leo, quella che andava da “Vattel’a vede” a “Nun ci annà”, Atomic blonde si colloca sul gradino dell'”embè?”.