Liberamente tratto dal romanzo Il seminatore di Cavatore, Lubo è il quinto lungometraggio di Giorgio Diritti, nonché il suo film più lungo, più incline alla grandeur e più “internazionale”. Girato in tedesco e italiano lungo un vasto lasso di tempo che va dal 1939 ai primi anni ’60 a cavallo del confine tra Svizzera e Austria, il quinto film patrio presentato a Venezia 80 è anche quello che il concetto di patria prova a interrogarlo.
Lubo Moser – il rampante Franz Rogowski – una patria vera e propria non ce l’ha perché è un nomade di etnia Jenisch. Si guadagna da vivere come artista girovago ma nel 1939 è chiamato ugualmente sotto le armi per difendere i confini di una nazione di cui non si sente parte (in circostanze normali sarebbe ricambiato); la sua vita è la famiglia, con la moglie, i tre figli e i numerosi nipoti. Sullo sfondo dell’ascesa del nazismo da cui i cantoni elvetici non sono impermeabili, l’operazione Kinder der Landstrasse non risparmia nessuno, e, mentre Lubo presta servizio, i suoi bambini vengono sequestrati e riassegnati in istituti di correzione con il pretesto della salvaguardia dei minori. Da lì inizia la nuova vita di Lubo, che ottiene il nome Bruno Reitner uccidendo il proprietario originale e ricomincia una nuova vita, prima cercando la vecchia famiglia e poi, perse le speranze, scoprendone una nuova.
Diritti non scava in profondità come fa Cavatore, non è interessato a portare in scena la grottesca vendetta di Lubo Reinhardt, il quale risponde alla pulizia etnica ammantata di umanitarismo con l’eugenetica surrettizia. Il gemello celluloide chiamato Lubo Moser è una persona semplice con obiettivi altrettanto semplici, estraneo alla visceralità efferata dell’inseminatore letterario. Il regista italiano imposta un discorso magniloquente con più di qualche scelta incongruente lungo il tragitto e lo fa lasciando da parte tutta la ferocia contenuta nel testo di partenza. La furia del gitano di Cavatore contro la Pro Juventute finisce per accanirsi sulle donne svizzere, il suo seme diventa il seme della violenza; la sua nuova famiglia italiana lo porta a perdere tutto, i suoi nuovi figli ereditano il marcio dentro di lui e lo perpetuano.
Diritti invece sceglie una via più canonica, e si orienta verso la prospettiva di un film di denuncia che offra uno spaccato vivido sul clima dei tempi, prendendosi tutte le libertà necessarie per tracciare un ritratto esaustivo dei crimini di stato perpetuati fino al 1973 in Svizzera. La Pro Juventute, sotto l’egida pubblica, ha sequestrato, internato, deportato, violentato, sterilizzato, e direttamente o indirettamente ucciso migliaia di bambini di origine zigana per mezzo secolo. Solo nella seconda metà dell’opera però si viene a capo della questione: Lubo, rintracciato da un vecchio commilitone, viene riconosciuto e condannato, e da lì, ricostruendo a ritroso le ricerche del protagonista, il film ne porta in scena l’indagine silente che condanna senza appello l’organizzazione. Stona tuttavia che l’obiettivo dichiarato della sceneggiatura non richieda che una piccola parte delle tre ore di montato, accontentandosi di emergere nell’ultimo terzo del film; stonano anche le modalità scelte per raccontare la trasformazione del protagonista, che parte sì da molto lontano ma si aggiusta repentinamente dopo il furto d’identità, palesando un indecisionismo di fondo.
È comprensibile che simbolicamente possa esserci un taglio netto nella mise ma per come tale cambiamento è impostato non ne viene che una deriva goffa e vagamente incoerente. Nella prima parte Diritti sceglie di non omettere nulla ma di riprodurre invece l’integrità gestuale e sentimentale dell’eponimo, guidandoci passo passo con camera fissa e fotografia soffusa: seguono l’assassinio del mercante con tanto di vilipendio precauzionale, la personalissima scuola guida da autodidatta di un uomo abituato alla simbiosi con i cavalli, e poi gli sguardi, le esitazioni, la sorpresa nel venire a conoscenza del carico di preziosi e la fuga. La seconda parte invece vive di ellissi confusionarie, che penalizzano con imbarazzante evidenza le prestazioni degli interpreti e parossisticamente traspongono i rapporti costruiti trai nuovi personaggi con meno attenzione di quella dedicata alla familiarizzazione del nostro con la leva del cambio. L’incertezza di fondo è palpabile.
Lubo sembra concentrarsi se non addirittura accanirsi sulle parti di contorno, quelle più insignificanti di tutta la vicenda. L’accusa che emerge è pervicace ma spogliata di tutta la sua brutalità: la violenza della storia, specie per quanto riguarda la componente sessuale, che viene lasciata alle inferenze dello spettatore. Rimane sullo sfondo il circuito pedofilo legalizzato, così come l’opera di ingegneria genetica di Lubo viene trascurata. Tra le malelingue serpeggia la suggestione di una reprimenda giunta da oltre le Alte Alpi (la produzione è italo-svizzero-tedesca) con l’obiettivo di neutralizzare l’eventuale carica destabilizzante di un film che potrebbe prendersi gioco di una piega della storia difficile da affrontare, né più né meno di come succede in Italia. Scampato pericolo, con o senza problematiche di censura Giorgio Diritti continua a involversi e non va al di là del livello minimo richiesto da un fiction RAI: il suo Lubo si arena presto, sospeso tra troppe tonalità contraddittorie e un vacuo ramingare.