Per il suo debutto nelle sale, il duo “Fabio & Fabio” – alias Fabio Guaglione e Fabio Resinaro – ha scelto di cimentarsi in un genere tradizionalmente estraneo al cinema nostrano, ovvero il war movie, operando – almeno sulla carta – una reinvenzione dei suoi elementi fondanti.

Mike Stevens – Armie Hammer – è un tiratore scelto dei Marines, appostato da mesi tra le dune dell’Afghanistan col commilitone e amico Tommy – Tom Cullen – per uccidere il capo di una cellula terroristica. Quando finalmente si presenta l’occasione di concludere la missione, Mike esita e i due vengono scoperti: in fuga verso un villaggio, incappano in un campo minato dove Tommy perde la vita e Mike calpesta a sua volta un ordigno. Impossibilitato a muoversi, Mike dovrà attendere genuflesso l’arrivo dei soccorsi, affrontando, ancor prima che le condizioni proibitive del deserto, i propri demoni.

Come si evince dalla sinossi, Mine ha solo l’involucro di un film di guerra all’americana: in primo luogo, di colpi ne vengono sparati giusto una decina, per di più contro bersagli che, con tutta probabilità, sono frutto della mente del protagonista. Secondariamente, con la dipartita di Tommy dopo i primi venti minuti, la scena è dominata quasi esclusivamente dal protagonista, che attraverso continui flashback passa in rassegna il suo passato giungendo a una più profonda comprensione di sé: insomma, un thriller psicologico piuttosto che un’epopea militare.

Lo spunto – e persino la metafora – della mina che impedisce a Mike di procedere nella missione e nella vita, anche se già visto, è pur sempre convincente: tuttavia, è bene precisare che questa serie d’intuizioni non rappresenta condizione sufficiente per l’apprezzamento di Mine.

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Per quanto infatti la pellicola parta da premesse non malvagie, se si guarda a come queste sono state sviluppate a livello di sceneggiatura ci si imbatte in un coacervo di stereotipi che attinge a piene mani al repertorio dei film di genere da cui Mine si fregia di voler prendere le distanze.

Partiamo dal duo composto da Mike e Tommy, la cui caratterizzazione sembra rifarsi a un videogioco sparatutto: l’uno integro e prudente ma tormentato da un’oscurità interiore, l’altro facilone e edonista ma attaccato al figlioletto, che però – ironia della sorte – non rivedrà mai più. Quando poi si viene a Mike, alla sua infanzia travagliata dal padre ubriacone e violento e dalla malattia della madre, e successivamente al suo presente con la fidanzata Jenny, conosciuta in seguito a una rissa con dei soldati che l’avevano infastidita, si è talmente sopraffatti dai cliché che si arriva a non poterne più fare a meno, dal momento che proprio i cliché costituiscono la vera ossatura del film.

Infine, l’introduzione del berbero che saltuariamente fa visita a Mike, pensato per dare con la sua maiuetica un taglio mistico-filosofico all’opera, invece di imprimere una svolta si limita a offrire una parentesi comica, svelando con le sue allusioni anche l’unica sezione da cui era lecito aspettarsi un guizzo di creatività, vale a dire il finale.

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Senza spingerci oltre nella disamina dei luoghi comuni, dispiace anche che l’interpretazione di Armie Hammer – che dovrebbe costituire uno dei punti di forza del film – sia pesantemente invalidata dal doppiaggio: d’altronde, il fatto che Mine sia stato scritto in italiano, tradotto in inglese e successivamente riadattato in italiano non poteva che andare a inficiare la prestazione degli attori.

Stando così le cose, non si capisce perché in molti abbiano gridato al miracolo. Forse la ragione del vasto apprezzamento incontrato da Guaglione e Resinaro è da imputare a qualche sorta di malsano patriottismo, come se il tentativo di svecchiare il cinema italiano sconfinando nel territorio delle produzioni d’oltreoceano bastasse a legittimare la loro ultima fatica.

E’ un intento certo lodevole, ma la cui messa in pratica non è in grado di reggere il confronto con altri film italiani – primo fra tutti Lo chiamavano Jeeg Robot – che in questi anni hanno saputo dare un respiro veramente internazionale al nostro cinema, peraltro in maniera più coraggiosa e originale.