Tazmania, 1825. Deportata come detenuta, Clare (la brava italoirlandese Aisling Franciosi) viene soggiogata dal cattivo tenente Hawkins (Sam Claflin) che trattiene lei, il marito – anch’egli galeotto – e la figlioletta ben oltre la durata delle loro pene. Quando i due provano a ribellarsi, l’ufficiale britannico e i suoi fedeli scagnozzi annientano la famiglia sotto gli occhi inermi di Clare. Da quel momento, l’unico pensiero della giovane irlandese sarà quello di vendicarsi lanciandosi all’inseguimento del tenente (nel frattempo spostatosi a nord in cerca di una promozione) attraverso terre sconosciute e selvagge, ingaggiando l’indigeno Billy (l’intenso Baykali Ganambarr) come guida.

Guarda le foto dei protagonisti di The Nightingale a Venezia 75.

Jennifer Kent, regista dell’acclamato Babadook, presenta in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia (unica donna in competizione) un film che parla di violenza in molti modi diversi, ma non sempre in maniera efficace. C’è una violenza esplicita, insisitita, claustrofobica che include crudeltà e misoginia, rabbia e ignoranza, insicurezza e codardia: è la violenza che subisce Clare e che con lei patiscono i deboli e gli emarginati. C’è poi la violenza indiscriminata e ideologica, razziale e politica – e che The Nightingale descrive durante la caccia al tenente – di cui sono vittime le popolazioni aborigene sull’orlo del genocidio.

Se nel primo caso la coercizione risulta devastante e insostenibile, ma cinematograficamente riuscita nel costringere lo spettatore a fare i conti con l’essenza del male, nel secondo la denuncia – per quanto lodevole – dello sterminio degli indigeni, ancora peggiore se esistesse una scala di raccapricciante malignità, rischia di essere indebolita da alcune rappresentazioni semplicistiche e banalotte di entrambe le parti. La regista riesce a costruire un ritratto inquietante delle violenze personali, anche grazie all’ottima prova attoriale dell'”usignolo” Aisling Franciosi e ad alcune riuscite sequenze oniriche, ma quando il quadro si allarga non mantiene la stessa incisività, affidandosi a una narrazione episodica e ripetitiva.

Non c’è dubbio, purtroppo, che il tema della violenza sia tremendamente attuale. Si capiscono subito dunque i mille rimandi di Jennifer Kent a un mondo carico d’odio e intolleranza che preferisce distruggere invece di comprendere, violentare invece di conoscere. Ma l’indagine sulla purezza della violenza si edulcora in un finale drammatico ma buonista.