Quando la celebre autrice di romanzi Ingrid (Julianne Moore) viene a sapere che la sua amica Martha (Tilda Swinton) ha un tumore allo stadio terminale, non esita, nonostante gli anni trascorsi senza frequentarsi, a volerla incontrare. L’amicizia tra le due donne, che hanno entrambe avuto in passato una relazione con Damian (John Turturro), non è stata scalfita dal tempo: Martha arriverà a chiedere a Ingrid di sostenerla in una decisione dolorosa e persino, dal punto di vista legale, rischiosa.
Prima pellicola del cineasta spagnolo fuori dai confini iberici, “The room next door” è una conferma della maestria e unicità con le quali si è distinto fin dagli albori della sua carriera. Lo sguardo inconfondibile dell’autore esplode, fin dalla prima inquadratura, e in ogni singolo fotogramma, in ogni movimento di macchina permane la sua firma.
Uno tra i meriti del regista è quello di aver compiuto, film dopo film, un percorso verso una sempre più intima introspezione umana, per certi versi sempre più universale, ma al contempo riservando un’attenzione immutata verso alcuni temi ricorrenti. Quest’ultimo è il caso della malattia, dell’amicizia, della maternità: nuclei cari al regista, declinati sempre in modalità nuove. Tra tutti gli argomenti però è la femminilità, o meglio l’essere donna, tratto fondamentale di molte sue pellicole: in questo film, con la “guida” di alcuni fotogrammi, tra cui quello delle due donne stese su una sdraio in un terrazzo, che riporta inevitabilmente a “Parla con lei”, è possibile ritrovare i frammenti della filmografia di Almodóvar, quasi a legare con un invisibile fil rouge le varie storie. Lodevole è inoltre il riferimento alla guerra, osservata dal punto di vista di un reduce e di una reporter, sviluppato nella giusta misura.
La vita delle donne è, però, analizzata anche in stretto rapporto con la morte, in particolare con l’eutanasia, tema sempre contemporaneo, qui raccontato con immensa dignità e umanità: la presa di posizione è evidente ma non si polemizza, c’è un margine molto ampio di libertà di pensiero.
Pur essendo ambientato a New York e dintorni, la connessione con l’Europa è forte, soprattutto grazie alla letteratura, in particolare dell’irlandese James Joyce, o con una figura essenziale come quella di Virginia Woolf. Ad aleggiare inoltre è, talvolta, il fantasma della cinefilia, quella gioia pura provata mentre le immagini scorrono che ha portato l’artista a girare film: i riferimenti spaziano da Buster Keaton a Ingrid Bergman, fino ai rimandi più sottili a pellicole come “La donna che visse due volte” (Alfred Hitchcock) e “Persona” (Ingmar Bergman).
È un film pudico, che spinge lo spettatore ad emozionarsi, senza mai sconfinare nel melenso – tesi avvalorata dalla colonna sonora, realizzata dal fedele collaboratore Alberto Iglesias – un’opera imperdibile, anche grazie a performance attoriali di livello, il cui senso più profondo arriva direttamente alle viscere di chi lo guarda.